Grazia Deledda, Premio Nobel 1926, occupa un posto significativo nel romanzo, un genere letterario che non ha avuto in Italia, come ad esempio in Inghilterra, un iter evolutivo in rapporto alle ideologie del secolo. Termine di riferimento è per noi sempre il Manzoni e, raramente lo sono gli scrittori dell’ ottocento; Grazia Deledda merita un più attento esame, perché le sue opere sono così integrate nel clima isolano, da costituire una pagina di storia a sé stante. La scrittrice visse e opero’ in un periodo di fervida attività letteraria: il verismo stava per tramontare, l’ arte di Gabriele D’ Annunzio, ebbra di vergini sensazioni si faceva notare; Matilde Serao, Antonio Fogazzaro, Enrico Panzacchi, avevano nel 1894 dato avvio a un movimento mistico, che girava a distogliere il romanzo da fini scientifici e positivisti. Si delineava l’ astro nascente di luigi Pirandello. Questa ben nutrita schiera di scrittori non facilito’ di certo il compito della Deledda ne’ dei critici. Arrivata a Roma con una preparazione da autodidatta, aveva frequentato regolarmente solo le prime quattro classi elementari. Come nota il critico Bonaventura Tecchi, ella fece “blocco a sé “, come, in fondo, era la sua isola, anche se echi della cultura contemporanea , dovettero penetrare nel tessuto della sua personale formazione. Il verismo si esprime nelle sue opere ma non è di scuole di pensiero; manca infatti di ogni accentuazione sociale: nasce piuttosto dalla diretta osservazione paesaggistica ed umana della sua terra, realtà che aveva penetrato più con la forza del sentimento che con la freddezza analitica di un osservatore obiettivo. In “Cosima” opera autobiografica e postumi, apprendiamo che non traeva profitto dalle lezioni teoriche, che a lei impartiva un professore di greco, ma da quelle pratiche che il fratello le procurava, portandola alle feste campestri, negli ovili sparsi, dove poteva conoscere “tipi di vecchi pastori che potevano raccontare storie più meravigliose di quelle scritte sui libri “.
Le vicende dei romanzi sono ambientate non in tutta la Sardegna, ma della Baronia e della Barbagia, dove è Nuoro, città in cui la Deledda nacque nel 1871 e fra contrasti familiari ed ambientali visse fino al 1900, anno in cui si sposo’ con Palmiro Madesani e si trasferi’ a Roma, ambiente decisamente più aperto alla libera espressione. Si spense nel 1936. Sempre a Roma. La Barbagia, nel cuore della Sardegna, isolata dalle correnti dei traffici economici, dalle correnti letterarie, dai fermenti culturali, era strutturata in una forma di vita agro pastorale. Le storie dei romanzi si inquadrano nella sfera familiare e i protagonisti ricorrenti sono: la madre, il padrone, il servo, la serva, il prete, il bandito. In questo ambiente chiuso come se fosse senza porte ne’ finestre, maturano inevitabilmente situazioni di peccato e di colpa. Che spesso trovano un tragico epilogo. All’ amico Stanis Manca, la Deledda scrive: “Non mi farete il solito, terribile torto, così in voga in Sardegna, di vedere che sotto le spoglie delle mie eroine mi celi io stessa”. Non le faremo questo torto; nessuna creatura nell’ individuale caratterizzazione, è la scrittrice. Ma come l’ epistolario rivela, tutte hanno in comune con lei alcuni aspetti: chiuse, solitarie, silenziose, modeste, passionali, avare di parole, dignitose, tenaci nei propositi, calde negli affetti. Questi i denominatori comuni. Minuta, non bella per sua definizione, ha trasferito nei suoi personaggi I suoi grandi occhi, il dato fisico a cui da’ più importanza.
Le figure femminili, prima di Antonioni, conoscono il dramma del silenzio, della solitudine, dell’ incomunicabilita’. I suoi personaggi femminili vivono le proprie vicende passionali nell’ intimo e il bisogno di interiorizzazione è tale, che siamo quasi portati a pensare che l’ autrice abbia un po’ recepito la fascinazione pirandelliana. La loro esistenza è grave; cadute in peccato per amori impossibili, si caricano di un senso di colpa e, scettiche nei valori della giustizia, cercano l’ espiazione e la purificazione attraverso la sofferenza e il dolore. Al critico Bonaventura Tecchi, alcune figure di donna, sono apparse troppo ” statuarie “. È sfuggita allo studioso, una qualità essenziale delle anime sarde: la dignita’ in cui si compendiano e compostezza di dolore e smisurato orgoglio; una condizione dell’ animo che sa racchiudere, con rassegnato pudore, tutto il male che, non trova nell’ esistenza , un’ adeguata compensazione e giustificazione. Le figure maschile hanno una costante comune: la debolezza che si esprime o come inerzia, ozio psichico, o incapacita’ di scelta di fronte ai problemi che la vita presenta. Nei romanzi protagonista è la natura: non un quadro di statica compostezza classica, ma un elemento vivo umanizzato; uno “Sturm und drang “, una tempesta, nell’ inquietante accendersi dei suoi elementi; talvolta una rassenerante oasis dove il dramma umano si diffonde nella liricita’ della luce, del colore, del suono. Talvolta la natura, come una grande madre, partecipe alle sue segreto profonde pene. Ora in contrapposizione, quasi volesse infondere, nell’ animo sconvolto dalle passioni, il senso di una rasserenante quiete. Carattere peculiare dell’ opera è la drammaticità ; nel 1904 ella concesse a Giannino Antoni Traversi, l’ autorizzazione a ridurre per le scene “l’ Edera”.
Quali I caratteri drammatici? Già l’ inizio del romanzo è in un clima , dove gli eventi interiori ed esteriori hanno raggiunto il momento culminante di maturazione. Nell’ “Edera ” si respira l’ atmosfera un po’ torbida dei romanzi russi, che la Deledda lesse. Lo zio Zua’, paralizzato dal letto con il suo brontolio esasperante, con il suo sogghigno maligno, segna il processo di disgregazione della famiglia è crea un clima d’ attesa, in cui l’ omicidio di Annesa, più che violenza sembra un atto liberatorio. L’ inesorabile è elemento fortemente drammatici perché lega la sorte umana a un fatalistico svolgimento. “..era una forza irriducibile quella che porterà via Annesa”. Una concessione della vita sentita in tutta la sua ‘crudezza’. Vita che non sostenuta da una salda fede, né dal senso manzoniano della Grazia nasconde, come la scrittrice si esprime in “Cosima”, sotto “le apparenze delle cose più belle, le unghie inesorabili”. Quindi la protezione di quella società agro pastorale che, povera e solitaria, viene scandita dal fluide fatale degli eventi, eventi che, se vissuti con dignitoso coraggiosamente, non daranno situazioni inquietanti ma si integreranno nel quadro dei fenomeni naturali: il sorgere del sole, il sereno, il corso della luna, una tempesta di pioggia o di neve. I periodi hanno il carattere di una concisione drammatica; nessuna divagazione; ogni parola mira all’ essenziale; pochi dialoghi, molti soliloqui un’ interiorizzazione è approfondimento della coscienza. L’ opera di Grazia Deledda si può considerare una grande pagina di storia dove il primitivo e il singolare si è fissato nel tempo. È stata una grande , appassionata interprete della sua gente e della sua isola, la Sardegna, terra che un letterato, sensibile Poeta sardo, Marcello Serra, ha definito “Quasi un Continente”.
Francesca Mezzadri