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Graziano Gala. Popoff

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Per uscire da certi incubi pare tocchi inventarsi altri mondi. Ce lo insegna un certo tipo di letteratura, niente di nuovo sotto il sole, certo ma quando di sole non se ne vede mezzo raggio, come si supera la notte?

Forse il trucco sta nel cercare lampadine, cercare la Liu-cce, come dice il nostro Popoff, qualcosa da lasciare acceso mentre ci si costruisce il proprio universo, un pezzetto per volta, uno spasulato, per volta. E se travi e mattoni non bastano a tener in piedi la baracca, ben vengano le parole a far da cemento: quelle strane, quelle nuove, quelle storpie e un po’ maldestre che ci scombussolano prima la pagina, poi il cuore.

Gala non è nuovo a queste cose, dopo due romanzi, un’antologia di racconti e un Controdizionario una semmai lo possiamo considerare un veterano. Di versi canterini e parole “sbagliate” ne ha fatta dunque la sua poetica.

Chi lo legge dagli albori già sa che la sua è una ricerca nella forma ancor prima che nella trama, l’artigianato fine di una prosa che non si accontenta di adagiarsi nel dialetto ma che ne estirpa la radice per miscelarlo a una lingua nuova, personale. Somiglia a un gioco di bambini quello fa l’autore, come i pupi che si siedono al tappeto e, tra uno scherzo e una carezza, tirano fuori significati (e significanti) tutti nuovi. Mattoncini colorati che messi uno sopra l’altro diventano soffitti parlanti, fortezze, robusti bastioni che proteggono dai mostri. Ben venga dunque il patto implicito, ‘che leggere Popoff significa tornare anche noi un po’ fanciulli.

Esserini piccoli, fragili, con gli occhi a pozzo, ricoperti da giubbotti troppo spessi e troppo ingombranti. Disgraziati catapultati in una fiaba per adulti, analfabeti senza un padre né una madre, con quell’unica domanda che gli scappa dalla gola «Scusi, signore, ha visto per caso mio padre?». Sarà questo il leitmotiv che ci porterà avanti, noi/lui, un requiem che scandisce ritmo e passo, mentre ci si smarrisce in una città con le case troppo alte, le porte troppo strette, i muri troppo storti. È un labirinto che stordisce, a tratti spaventa, altri affascina, un posto in cui per sentire calore bisogna scendere a patti con gente che a vederla per strada, nella vita vera, non gli getteresti mezzo centesimo. Con Cimino a far da Virgilio, più spaesato del protagonista e Catarino Prisciandaro, Poliure Tano, CrociAto, l’inquietante Dir-Ettore e tanti altri che qui non stiamo a nominare ma che il lettore si ricorderà fin troppo bene, croce sul cuore. Nomi che sono già delle icone ancor prima che l’autore ce li presenti e si badi bene che mica tutte queste comparse difettose sono persone di creanza.

Come ogni fiaba che si rispetti, anche in Popoff tutto è simbolismo d’altro: ogni incontro ci rimanda all’ingenuità di un Pinocchio che si raffontra con troppi Gatti e troppe Volpi, in cui ogni promessa, inganno o sparizione diventa metafora di una morale che arriva per vie traverse, a volte tortuose, come sono i vicoli della città in cui si muove il piccolo fiammiferaio. Ecco lo spirito di Popoff: un’epopea del fanciullo alimentata da un biografismo personale che piano piano allarga il suo spettro e diventa messaggio per la piazza in ascolto.

Con la sua grammatica anarchica e una cadenza che richiama alla lettura orale, Graziano Gala ci consegna un’opera densa, personale come poche altre, che va letta nel giusto tempo e spazio, ricordandoci che fare Letteratura è in primis questo: assecondare le maestranze alla voce che sta nel petto, cercargli una luce, non smettere di alimentarla. Lampadina o candela, a chi legge poco importa, la preghiera è soltanto una: che possa resistere sino al mattino.

Stefano Bonazzi

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Popoff

Graziano Gala

Minimum fax

17,00 euro — 182 pagine

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