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Greta Pavan Anteprima. Quasi niente sbagliato

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Blindato da una quarta di copertina inattaccabile, esce oggi nelle librerie Quasi niente di sbagliato (pagg. 185, € 16,00), esordio sulla lunga distanza di Greta Pavan, targato Bollati Boringhieri.

Prima ancora di diventare oggetto cartaceo ed essere veicolato per le librerie, il romanzo della Pavan ha avuto una ottima accoglienza nella XXXV edizione del premio Calvino, arrivando in finale e ricevendo la menzione speciale della giuria.

Qualcosa che Quasi niente di sbagliato si merita appieno perché riesce a raccontare in modo ragguardevole un luogo e una geografia (la Brianza, il suo hinterland), a restituirci un’etica (l’assolutizzazione del lavoro come unica realizzazione possibile) e una visione storica tracimati dal vecchio secolo a questo inizio di nuovo millennio.

Potrei arrischiare una interna “visione politica”, ma chi vive sulla propria pelle gli ultimi tre decenni credo torcerebbe lo sguardo. Non tanto per disgusto, ma per compassione verso questo tipo di indicazione.

Greta Pavan ambienta il romanzo in Brianza, sua terra natale, raccontando in prima battuta il disagio del crescere in un mondo che si manifesta gretto, legato al materialismo del lavoro e della fatica. Un mondo il cui orizzonte è basso, annichilente, dove ogni forma di bellezza sembra doversi trasformare come minimo in sciatteria, se vuole sopravvivere.

Nelle pagine di Quasi niente sbagliato scorre la vita di Margherita, dai sei ai ventidue anni, dal 1996 al 2012. Scorre in maniera anticronologica, per episodi che saltano avanti e indietro nel tempo.

In questo modo l’autrice costruisce (credo) prima ancora che il carattere del personaggio, la confusione, lo sperdimento, la delusione compresi nell’universo che lo circonda.

Ogni capitolo rappresenta un anno nell’esistenza di Margherita, e un tassello nella sua formazione.

La strutturazione del suo essere si muove infatti attraverso quegli episodi marginali (un quasi niente) presenti nei capitoli. Sono loro che la plasmano e la traghettano dall’infanzia via adolescenza alla prima maturità, che è già punto in cui si è arrivate al limite con la disillusione.

Scritto con una lingua densa quanto affilata, Quasi niente sbagliato è un romanzo capace di raccontare l’orrore, la violenza, la sopraffazione, l’imposizione dei ruoli, insomma le dinamiche del potere che si agita lungo il territorio brianzolo.

È, alla fine dei conti, un romanzo dove la redenzione viene bandita. 

Eppure è impossibile dirlo incapace di compassione verso gli uomini e il paesaggio. Una compassione sobria, che non ammette pietà soverchia ma ci rende emotivamente presenti al racconto, partecipi della sua verità.

 

Sergio Rotino

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Dopo che a Mike e Luke fu assegnato il quartiere dell’ospedale di Desio, fu fatto il mio nome.

«Leo, tu fai vedere a Margherita come si fa. Oh, fai il serio. E il gentiluomo. Le spieghi tutto per bene, i tuoi trucchi. Tra una settimana la voglio più brava di te. Siete a Lentate, parti da via Garibaldi».

Leonardo era il più alto e il più magro, l’unico a indossare un completo che fosse davvero della sua taglia, ed era leggermente ricurvo forse per l’abitudine a piegare il collo quando qualcuno gli parlava. Sulle guance aveva lentiggini come timbrini e i capelli gli brillavano di gel. Ballava con uno chantilly tra le dita, gli si scuoteva intorno tenendolo immobile sopra la testa e con le labbra mimava alone with you alone with you; ballava bene. Prima di mangiare il pasticcino gli diede un bacio.

Raggiungemmo Lentate in quaranta minuti. La superstrada era schiacciata sotto una luce che aveva la consistenza dell’acqua; la Brianza era piena di azzurro o di qualcosa che gli somigliava: le insegne dei capannoni e dei benzinai; le reti che separavano l’asfalto dagli alberi e l’alone di ruggine dentro cui oscillavano; l’ombra sotto ai cavalcavia, il muschio sui piloni; persino i mattoni dell’Esselunga diventavano azzurri, perché assorbivano il livore di tutte le altre superfici.

Prima di salire sulla Peugeot, Leonardo aveva sorriso guardandomi dritto negli occhi, una sicurezza che mi era parso avesse guadagnato da poco. Aveva allungato la mano dicendo il suo nome e io l’avevo stretta; aveva ruotato i nostri polsi di quarantacinque gradi e mi aveva rimproverata: non avrei mai dovuto permettere a qualcuno di ribaltare la mia mano.

«Se vuoi lavorare nelle vendite devi impararlo. La gente pensa che devi stringere forte le dita e basta, invece la cosa importante è che il polso stia rigido. Altrimenti lasci il potere agli altri e la trattativa è già persa».

Durante il viaggio aveva fatto molte domande sulla mia vita, a cui io avevo risposto facendo domande sulla sua. Dava risposte granitiche, soprattutto quando l’argomento era il futuro. Aveva una fidanzata da quattro anni, voleva sposarla e avere un bambino prima che diventassero entrambi troppo vecchi; esisteva una casa in costruzione dietro alla tessitura dismessa, ormai mancavano solo l’impianto elettrico e i pavimenti; sarebbe rimasto nel settore dell’energia ancora un anno, poi avrebbe provato nella grande distribuzione come suo padre. Raccontava senza entusiasmo, ma con una serenità che lo rendeva distante, come se parlasse da dietro un vetro; sembrava che preparare quelle risposte gli fosse costato fatica, ma lo calmasse la convinzione di non poterle più cambiare.

Quando gli avevo chiesto del suo passato aveva pronunciato meno parole, alcune solo a metà. Era disinteressato a se stesso mentre diceva che il diploma da geometra non gli era servito a niente e che, se solo i suoi gli avessero permesso di fermarsi al terzo anno, avrebbe già avuto un contratto a tempo indeterminato e la sua famiglia non avrebbe risentito della crisi. Aveva accennato ai lavori precedenti, prima in un centro commerciale a vendere le tessere della Tim e poi un’estate in un villaggio vacanze nel Salento, dopo la quale aveva pensato di imbarcarsi con l’equipaggio di una nave da crociera insieme a suo cugino, non fosse stato per la faccenda della fidanzata, del figlio e della casa in costruzione. Aveva parlato come di qualcosa successo cinquant’anni prima. Usciti dall’autostrada ed entrati a Lentate, avevo avuto la sensazione che si fosse pentito di avermi raccontato tanto.

In via Garibaldi, Leonardo aveva rallentato per guardarsi intorno. Lungo i due lati della strada correvano siepi e cancelli bassi, giardini senza ornamenti, garage serrati e pulsantiere in ottone con videocamere a forma di occhi. Il colore della Brianza, in via Garibaldi, era quello di una pesca.

Leonardo aveva parcheggiato la Peugeot e preso la sua valigetta dal sedile posteriore. Lo avevo seguito sotto la tettoia della prima bifamiliare sudando nei collant; quando una donna si era affacciata dal balcone e aveva detto non voglio niente, avevo fissato la foto del rottweiler appesa alla ringhiera.

Alla seconda villetta, Leonardo aveva suonato quattro campanelli con la mano aperta e nessuno aveva risposto. Alla terza, una voce maschile aveva gracchiato dal citofono che non gliene fregava niente, porti pazienza. Mentre l’uomo ci osservava dalla videocamera, mi ero immaginata quale angolatura avesse sulla mia faccia, un pezzo di collo e il mento e l’attaccatura dei capelli, mezzo quello e mezzo l’altro, sicuramente una prospettiva orrida e monca che gli sarebbe bastata per credere di sapere tutto di me.

Tra una casa e l’altra, mi era parso che la via si fosse nascosta dietro le tende per guardare la nostra sfilata e capire da un dettaglio dei nostri vestiti se fossimo gente di cui fidarsi; allora mi ero chiesta se Leonardo avesse ragione, se il successo potesse dipendere davvero da una minuscola inflessione del corpo, se fosse questione di individuare la ferita più morbida e infilzarla con tempismo, di imporre il potere senza che l’altro se ne accorgesse.

Leonardo aveva perso la pazienza al quarto tentativo. Aveva detto:

«Col cazzo che ci fermiamo qui. Ho visto l’insegna della Lidl mezzo chilometro più giù».

Superato il discount, entrammo in una zona del paese più vecchia, corti a tre piani e piccole palazzine non recintate, a segnare i confini della carreggiata c’erano i muri delle case.

Leonardo fermò la macchina a lato di una via a senso unico, addosso a una cascina. In fondo, la strada diventava sterrata e proseguiva in mezzo a campi attraversati dai cavi elettrici. Scendemmo dalla Peugeot e ci infilammo in una via sulla destra, in salita. Leonardo camminava con la stessa andatura che aveva avuto davanti alle ville, priva di esitazioni, in apparenza allegra, spedita come se si fosse convinto che muovendosi velocemente la giornata sarebbe finita prima. Eppure, guardandogli la schiena mentre il sole lo colpiva da davanti e lo avvolgeva in un’aureola ridicola, avrebbe anche potuto essere la camminata di un ubriaco.

Lo seguii aderendo ai muri delle cascine, bevendo ogni rettangolo d’ombra che riuscivo a trovare; nelle case, il livello dei pavimenti era quello della strada e le finestre erano basse, spalancate e senza una pianta a coprirle; se mi fossi fermata avrei potuto vedere una persona mangiare, piangere o lavarsi le ascelle o dormire con la bocca aperta o picchiare un cane o spingere l’aspirapolvere o pettinarsi davanti a uno specchio o chiudere a chiave una porta per stare sola tre minuti che fossero tre soltanto e osservare la propria bruttezza in pace e provare a farne conoscenza e invece no, perché a spiare dalla finestra ci sarei stata io.

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