Rethorica novissima di Gualberto Alvino è un libro inclassificabile.
Se queste sono poesie – cosa sia la poesia oggi, cosa significhi – certamente Alvino saprebbe spiegarlo meglio di me.
Filologo, critico militante, traduttore e membro dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, ha dedicato la vita allo studio degli irregolari. E, in un modo diverso se non irregolare, non lo saprei definire.
Ho letto due volte questo libro edito da Il ramo e la foglia edizioni, la prima in silenzio, come sempre faccio, e mi sono reso conto che qualcosa mancava.
Esistono poeti che sono fatti per il sussurro, i loro versi si trovano a proprio agio nelle cavità toraciche, nella testa di chi legge.
Wislawa Szymborska; Evtušenko; Montale persino, Ungaretti.
Altri, invece, come Thomas, Sanguineti, necessitano di uno spazio più ampio. Anche Pound, quando è possibile.
La seconda volta che l’ho letta, questa raccolta, ho provato a voce alta e ho scoperto che, più che poesie, più che corpi finiti, questi sono frammenti di discorsi, e che il segreto qui, come sempre, come in tutta la letteratura, sta nell’assenza, in tutto quello che si percepisce soltanto, che non si vede.
A ogni pagina di Rethorica novissima, si avverte la sensazione – anche di disagio – di entrare e uscire da una stanza dove qualcuno sta parlando da prima che entrassimo e dove si continua quando ne usciamo. Discorsi colti, altre volte bassi, semplici osservazioni, in lingue diverse, complesse e perdute.
Cogliamo parti di qualcosa che era e sarà dopo la nostra transumanza e, del resto, diceva Nicanor Parra, la poesia altro non è che tombe, testimonianza di una presenza che era prima di noi e che continua con noi e ci sovrasta, ci resta accanto il breve momento in cui ci siamo e poi ci supera per accamparsi altrove e continuare quel discorso che altri ascolteranno.
Francesco Muzzioli, nella prefazione al testo, ci parla di versi torrenziali che non osservano metrica. Alvino, si affida al suono, al ritmo. Non è un libro semplice e, del resto, la poesia non deve esserlo. Essa non deve venirci incontro, come spesso fa la cattiva prosa, ma costringerci a camminare.
Quando ero ragazzo camminavo poco. Correvo piuttosto, dietro una palla, dietro alle donne, ai desideri. A quel tempo ero pieno di certezze e non leggevo mai poesie. Non le capivo.
Adesso cammino molto, mi guardo dentro a occhi spalancati – per usare un’immagine tanto cara a Péguy – e cerco di ascoltare la mia desolazione. Leggo molta poesia e accetto di non capirla, come s’impara ad accettare il lato romantico d’ogni sconfitta. Ho imparato che un poeta è una creatura rara e delicatissima il cui volo è incomprensibile quanto quello dell’effimera. Ugualmente soffre molto perché, come Auxilio Lacouture, è capace di scrutare dentro un vaso da fiori e vedere tutto quello che la gente ha perduto.
Pierangelo Consoli
Gualberto Alvino, Rethorica novissima, Il ramo e la foglia edizioni, pag. 96, euro 12.