Il 23 febbraio 1850, all’età di ventinove anni, Gustave Flaubert scriveva alla madre, Anne Justine Caroline Fleuriot. Nella lettera, l’autore del Madame Bovary – che sarebbe stato pubblicato sei anni dopo – affrontava quello che doveva essere un tema per lui “scottante”: la necessità di lavorare, compatibilmente con la vocazione letteraria e con una carriera in fieri.
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Devo avere un lavoro, “un piccolo lavoro”, voi dite. Prima di tutto, quale lavoro? Vi sfido a trovarmene uno, a specificare in quale campo, o come sarebbe. Francamente, e senza illudersi, ce n’è uno solo che io sia in grado di svolgere? Boi aggiungete: “Un lavoro che non ti porterebbe via molto tempo e non ti impedirebbe di fare altre cose”. Ecco l’illusione! È quello che mi sono detto quando ho iniziato a fare l’avvocato, cosa che mi ha quasi portato alla morte per la rabbia
repressa. Quando si fa qualcosa, la si deve fare interamente e bene. Quelle esistenze bastarde in cui si vende sugna tutto il giorno e si scrivono poesie la notte sono fatte per menti mediocri, come quei cavalli ugualmente buoni per la sella e per la carrozza, della peggior specie, che non sanno né saltare un fosso né tirare un aratro.
Gustave Flaubert