Saggezza pratica: “Io, se fossi stato ricco, avrei avuto un mucchio di figli… Quando si è poveri, bisogna essere ragionevoli”.
Conclusioni crudeli: “La signora Lesable continuò in tono grave: “Questo non giustifica niente. Il poveruomo è comunque da compiangere. Abbiamo un vicino, il signor Barbou, che si trova nelle stesse condizioni. La moglie si è presa una specie di pittore che trascorreva qui le estati e sono andati via insieme all’estero. Non capisco proprio come una donna possa cadere così in basso. Secondo me, ci dovrebbe essere una pena speciale per simili miserabili che infangano la famiglia””.
È in libreria la nuova edizione di L’eredità di Guy de Maupassant con traduzione e introduzione di Bruno Nacci (Carbonio editore 2024 pp. 160 € 15).
Nella lucente Parigi della Belle Époque, César Cachelin, impiegato del Ministero della Marina, architetta con maestria un matrimonio strategico tra sua figlia Cora e il promettente e ambizioso collega Léopold Lesable, alimentato dalla speranza dell’eredità lasciata dalla ricchissima sorella Charlotte alla giovane nipote. Tuttavia, alla morte dell’anziana zitella, i Cachelin restano sotto shock quando scoprono che Charlotte ha posto una condizione nel suo testamento: se entro tre anni dalla sua dipartita Léopold e Cora non avranno un figlio, il lascito milionario – ben un milione netto! – sarà devoluto interamente in beneficenza. Da quel momento, la famiglia si getta in una disperata corsa per far nascere un bambino, trasformando le loro vite in una spietata partita a scacchi che svela un sottobosco di ipocrisie e meschinità celate dietro l’elegante facciata delle buone maniere.
Guy de Maupassant, con il suo implacabile scetticismo, smaschera senza pietà le apparenze per rivelare le vere intenzioni, scoprendo la corruzione dell’animo umano e donandoci un capolavoro di narrativa sottile e grottesca. Pubblicata nel 1884, inizialmente su rivista e successivamente inclusa nella raccolta Miss Harriet, questa preziosa novella era preceduta da una sua versione molto più breve, intitolata Un milione, anch’essa riproposta nella nuova edizione.
L’Eredità non è solo una storia di ambizione e desiderio di ricchezza, ma anche una critica sottile delle strutture sociali e delle aspettative imposte agli individui.
Consigliato a chiunque apprezzi una lettura intensa e riflessiva, il libro dimostra la maestria di Maupassant nel cogliere l’essenza dell’esperienza umana.
Carlo Tortarolo
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Non erano ancora le dieci, ma gli impiegati arrivavano a frotte sotto il grande portone del Ministero della Marina, si affrettavano da ogni angolo di Parigi, perché si avvicinava Capodanno, periodo di zelo e promozioni. Un rumore di passi concitati echeggiava nel grande palazzo tortuoso come un labirinto, solcato da inestricabili corridoi su cui si aprivano le innumerevoli porte degli uffici.
Ognuno rientrava al suo posto, stringeva la mano del collega che lo aveva preceduto, si toglieva la giacca, indossava il vecchio abito da lavoro e si sedeva al tavolo dove l’attendeva un mucchio di carte. Poi si recava negli uffici vicini per sentire le ultime novità. Prima di tutto si informava se il capo fosse già arrivato, se era di luna buona, se la corrispondenza del giorno era voluminosa.
César Cachelin, impiegato d’ordine incaricato della ‘gestione generale’, ex sottoufficiale della fanteria di marina, divenuto col tempo impiegato principale, prendeva nota su un grande registro di tutti i documenti che gli portava l’usciere di gabinetto. Di fronte a lui, papà Savon, lo spedizioniere, un vecchio scimunito famoso in tutto il Ministero per le sue disgrazie coniugali, trascriveva lentamente una lettera del capo, e vi si applicava tenendo il corpo inclinato, l’occhio obliquo, nella rigida postura del copista meticoloso.
Cachelin, uomo robusto, con i capelli bianchi e corti a spazzola, intento al suo lavoro quotidiano, stava dicendo: “Trentadue dispacci da Tolone. Quel porto ce ne rifornisce tanti quanti gli altri quattro messi insieme”. Poi rivolse a papà Savon la stessa domanda di tutti gli altri giorni: “Allora! Vecchio mio, come va la signora?”. Senza interrompere il lavoro, il vecchio rispose: “Lo sapete bene, Cachelin, quanto è penoso per me questo argomento”.
L’impiegato d’ordine, sentendo la solita frase, si mise a ridere come sempre.
Si aprì la porta ed entrò il signor Maze. Era un bel ragazzo bruno, vestito con un’eleganza eccessiva, che si riteneva poco valorizzato, giudicando il proprio aspetto e i propri modi superiori alla sua posizione.