La predizione della globalizzazione: “Tra soli quarant’anni il grande gioco degli stati sovrani sarà finito”.
L’illusione di un vedovo innamorato: “Di solito non ci si rende conto che vediamo ben poco di ciò che abbiamo davanti agli occhi: bastano una chiazza di luce, una d’ombra, e a metterci il resto ci pensano i ricordi e l’immaginazione. Il raggruppamento casuale di forme vaghe nello studio buio rischiarato dal caminetto aveva prodotto tutte le suggestioni necessarie ai suoi sensi smaniosi”.
Le certezze positiviste di una razza estinta: “Questo mondo sarà nostro per sempre e per sempre dobbiamo progredire verso la perfezione infinita”.
È in libreria Cronache dell’Altrove di H.G.Wells (Mattioli 1885, pp. 172, € 10,00) con traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi.
H. G. Wells è oggi ricordato soprattutto come l’autore di quattro visionari romanzi di fantascienza con premesse così semplici e forti da poter essere raccontate in qualsiasi modo: La guerra dei mondi, L’uomo invisibile, La macchina del tempo e L’isola del dottor Moreau.
Lo stile vittoriano tipico di Wells è evidente in questi dieci racconti, alcuni inediti, che spaziano dall’horror all’umorismo, offrendo una panoramica sulla sua opera e sviluppo personale. Dall’indagine sul mistero all’impegno verso la speculazione sociologica e scientifica, Wells dimostra una crescita narrativa, passando dalla razionalità alla sfaccettatura della prosa.
Un uomo legge un quotidiano del futuro, un altro finisce nella preistoria e incontra dei dinosauri intelligenti, una casa misteriosa nasconde un orribile mistero, un signore sembra avere il dono dell’ubiquità e un altro fa carriera grazie a un’essenza misteriosa.
In Cronache dall’altrove, il talento caleidoscopico di Wells si manifesta in racconti enigmatici, fantastici, riflessivi e visionari.
Wells non è uno scrittore integrato, la cui politica e immaginazione si muovono di pari passo. È uno che ha la capacità di prevedere il peggio, di vedere che nulla funziona come si sperava, ma si rialza e cerca di fare del suo meglio.
Troviamo anche il tema religioso nel rapporto tra un vescovo e la preghiera: “Non aveva mai imbrogliato sulle preghiere. Gli sembravano un atto purificatore e benefico, da non saltare, così come non si doveva mancare di lavarsi i denti, ma la sensazione che vi fosse un ascoltatore ben preciso, in attesa all’altro capo del telefono, per così dire, dietro al velo, era sempre stata molto debole”.
Un libro imperdibile per conoscere o approfondire un autore fondamentale che è stato iniziatore del genere fantascientifico.
Carlo Tortarolo
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C’era una volta un autore che perseguiva la fama e la prosperità da una graziosa villa sulla costa meridionale dell’Inghilterra. Scriveva storie accettabili e godeva della stima crescente del pubblico, stava ben attento a non offendere nessuno e cercava solo di risultare gradito. Si era sposato dopo una storia passabile che possedeva tutti i requisiti del romanticismo con una signora che scriveva versi solo di tanto in tanto ma in modo degno; era padre di una bambina le cui frasi, quando le riferiva ad altri, contribuivano molto alla sua popolarità e alcune delle persone più in vista del paese lo invitavano a cena. Era vice luogotenente nonché amico del Primo ministro, il cavalierato per meriti letterari non era per lui una possibilità così remota e nemmeno il premio Nobel, a patto che fosse sufficientemente longevo, era qualcosa di insperabile. Inoltre, tutta quella prosperità non lo aveva portato a sviluppare un orgoglio poco inglese. Teneva ben presenti la virilità e la semplicità che ci si aspettavano dagli scrittori. Fumava la pipa e non gli eccellenti sigari che si sarebbe potuto permettere. Portava i capelli corti e non si metteva mai in mostra. Non si teneva lontano dalla gente delle classi inferiori e di minor successo. Viaggiava abitualmente in terza classe allo scopo di studiare i personaggi che inseriva nelle sue deliziose storie; faceva lunghe passeggiate e frequentava i pub, avvicinandosi alle persone; incoraggiava il suo giardiniere a parlare, mettendolo a suo agio. E anche se lavorava costantemente, non aveva smesso di curare il proprio corpo, che tendeva minacciosamente a una certa pinguedine e, cosa ben più importante, a una pinguedine localizzata, che quindi non era diffusa dappertutto ma tendeva ad accentuare la circonferenza anteriore. Quell’allargamento era la sua unica preoccupazione. Pensava alla salute e giocava a tennis, e ogni giorno, che piovesse o facesse bel tempo, andava a fare una passeggiata di almeno un’ora.
Eppure, quell’uomo, membro così rappresentativo della letteratura edoardiana – perché è sotto il regno del buon re Edoardo che ha inizio questa storia – nonostante gli invidiabili successi e prospettive, era destinato, prima che la sua vita giungesse a una fine disonorevole, a vivere le avventure più faticose e oscure…
Perché non vi ho raccontato tutto di lui. A volte – al mattino – era irritabile e litigava con gli strumenti per la rasatura e aveva dei momenti di malumore incredibili durante i quali gli pareva che vivere assai piacevolmente in una graziosa villa, essere benestante e famoso e scrivere libri che risultavano sempre simpatici, privi di errori grammaticali e moderatamente raffinati, ma in modo innocuo, rendesse la sua vita più noiosa e insopportabile di quella che qualsiasi essere dotato di un’anima potesse essere condannato a fare. Il che dimostra solo che Dio, nel crearlo, non aveva dimenticato quell’organo, il fegato, che in genere ci si consuma in questi casi.
L’inverno sul mare è meno gradevole e più tonificante dell’estate e c’erano giorni in cui l’Autore doveva quasi costringersi ad affrontare le salutari e necessarie routine della vita, quando il vento di sudovest si abbatteva violentemente sulla sua villa, rombava nei camini e schiaffeggiava le finestre con folate di pioggia, promettendo di bagnare ben bene l’Autore giù per il collo e intorno ai polsi e alle caviglie non appena avesse messo il naso fuori dalla porta. E le onde grigie che vedeva dalla finestra venivano a infrangersi sulla riva sotto raffiche di pioggia sempre più rapide, una dopo l’altra, e colpivano gli scogli più in basso formando grandi montagne di spuma e lanciandogli uno spruzzo salato negli occhi. Ma lui, molto virile, indossava le fasce mollettiere, la mantella impermeabile e prendeva la pipa di radica più grossa che aveva, dopodiché usciva in quella baraonda sapendo che poi, quando dopo il tè si sarebbe messo a scrivere un bel racconto, sarebbe stato ancora più arguto.
Quindi uscì in una giornata del genere. Si diresse risoluto lungo i giardinetti di ghiaia, tamerici e ligustri affacciati sul mare con l’intenzione di costringersi a superare il porticciolo e salire in cima alla scogliera a est prima di tornare alla consolazione del caminetto, della moglie e del tè con i toast imburrati.
E in un qualche punto, a meno di un chilometro da casa, si accorse che uno strano personaggio cercava di stare al suo passo.
Gli parve che si trattasse di un nero molto infelice che indossava abiti unti e nero-bluastri da fuochista o da inserviente, probabilmente in servizio su un piroscafo ormeggiato nel porto, e avanzava zoppicando.
Mentre lo superava, all’Autore balenò il pensiero fugace delle tante cose che gli Autori non sapevano del mondo, di quanto per esempio quella creatura tremante e sottomessa potesse nascondere dentro di sé cose di inestimabile valore dal punto di vista del ‘colore locale’ se solo fossero riusciti a impadronirsene per ‘metterle’ in uno dei loro graditi romanzi.
Perché non attingevano sempre a quelle fonti? Kipling per esempio lo faceva, e con risultati assai soddisfacenti…