Molte volte, a torto o a ragione, la saggistica musicale diventa un mezzo per parlare d’altro, trasformandosi in una possibilità di riflettere sulla società e sul costume contemporanei e di dare a certi fenomeni sociali una nuova lettura.
Proprio come fa Hanif Abdurraqib in questo interessante “Finché non ci ammazzano” (Black Coffee, 307 pp, € 18).
Partendo spesso dal mondo delle sette note, il poeta e critico di Columbus prende costantemente la “tangente” per andare ad analizzare realtà scottanti e contraddittorie che caratterizzano l’everyday life americana. La sua attenzione, in molti dei saggi presenti in questa raccolta, si focalizza in particolare sulla difficoltà di essere nero negli Stati Uniti di oggi, un argomento che Abdurraqib affronta con piglio deciso, senza troppi giri di parole, ripercorrendo alcune pagine orribili della storia contemporanea e mettendo ben in chiaro che tanti, ancora tanti sono i passi da muovere affinché si arrivi ad un’equità di trattamento che riguardi davvero tutti gli uomini. Condivisibili o no che siano tutte le sue esternazioni e tutti i suoi punti di vista, appare invece sempre, indubitabilmente brillante la capacità da parte dell’autore di grattare la superficie di certi fatti musicali per rivelarne una logica di fondo che magari si dà un po’ troppo per scontata e che poco ha a che fare con la musica. L’operazione diventa ancor più apprezzabile quando si parla di rap, un genere che Abdurraqib conosce molto bene, essendone non soltanto un erudito, ma anche un fan, e sfruttando quindi una duplice prospettiva tanto critica quanto emotiva: nell’analisi di alcuni capisaldi del genere, infatti, così come nella ricostruzione di certe sue specificità linguistiche ed estetiche, molti di questi scritti sono in grado di smascherare alcune perverse logiche commerciali ma anche ideologiche contro le quali l’autore non risparmia parole di fuoco (molto interessanti, in tal senso, sono le considerazioni su Eminem e il rap “bianco”).
In queste pagine la musica alimenta comunque anche una dimensione introspettiva non indifferente, spingendo Abdurraqib a parlarci delle sue emozioni nell’ascoltare, ad esempio, i My Chemical Romance o raccontando le sue esperienze di gran frequentatore di concerti, che spesso danno il la a un sofferto viaggio nell’anima, in cui il poeta di Columbus si sofferma su episodi personali che spaziano dal dolore per la perdita di sua madre alle sue disavventure di studente-calciatore in contesti universitari e abitativi non di rado molto ostili, mettendo sinceramente a nudo le sue fragilità, le costanti rivolte interiori che lo hanno squassato fin da giovanissimo e non perdendo mai l’occasione di “consegnarsi” al lettore senza fastidiose cautele da “artista”.
Sono forse proprio queste le pagine migliori di “Finché non ci ammazzano”, che, in ogni caso, gode nella sua interezza di un accattivante lirismo di fondo che non dovrebbe far fatica a conquistarvi.
Domenico Paris