Il Cristo iracheno si chiama Daniel ed è davvero un cattolico iracheno. Mastica chewing-gum, crede fermamente nei radar e ne ha uno interiore: avverte il pericolo, salva vite umane. In guerra, soprattutto. Ma anche in una tavola calda, anni dopo, quando in un cesso piccolissimo lo obbligano a indossare una cintura esplosiva. Anche lì salverà qualcuno.
È complicata, la questione. Com’è complicata la terra da cui prendono vita i dodici racconti di Hassan Blasim, scrittore (e regista) di Baghdad che dal 2004 è rifugiato politico in Finlandia: “Il Cristo iracheno” è il titolo dell’opera, a pubblicarla l’ottima Utopia Edizione, etichetta nata nel 2020 che – come si legge sul sito internet – “non propone libri che si vendono, ma vende i libri che si devono proporre”.
L’Iraq dell’eterna guerra con l’Iran, dunque; l’Iraq dell’invasione del Kuwait, l’Iraq dell’occupazione americana, l’Iraq dei gruppi jihadisti, l’Iraq dei fanatici di regime, l’Iraq dei ribelli, l’Iraq degli sciacalli dell’acqua, l’Iraq dei fuggiaschi. Dei sommersi e dei salvati, parafrasando Primo Levi e provando così a decifrare lo sfondo che più si palesa durante la lettura di queste storie, molte delle quali ancora drammaticamente attuali o ricorrenti.
Ma questa è anche la terra degli Jinn, demoni del folclore arabo che proprio non vogliono saperne di uscire da certi corpi o, come nel caso del racconto di Sarsara, di abbandonare certi luoghi – “Un posto del quale ho dimenticato di sentire la mancanza”. La terra dei fantasmi di guerra narrati in “Sole e paradiso”, variazione sul serissimo tema dei cosiddetti “scemi di guerra”, superstiti del 1918 che tornavano a casa storditi dalle bombe e che, in questo racconto, si presentano come puro spirito in un villaggio altrettanto fantasma, a fare la guardia agli ultimi umani disumanizzati dal terrore: una madre che costringe la figlia sulla terrazza di casa, ore e ore al sole perché, sostiene, le milizie di regime preferiscono stuprare ragazze dalla carnagione chiara.
La terra dei coltelli che spariscono, che riappaiono, in un gioco maliardo che ha poco di illusionistico e tanto di metaforico – “Eravamo come una famiglia. Non condividevamo soltanto il nostro talento con i coltelli, ma anche le gioie e i dolori della vita, e la nostra ignoranza”.
C’è il bambino che spinge nel pozzo di merda il fratellino e trascorre il resto della sua esistenza all’ombra del rancore di sua madre. C’è l’autista di pullman esiliato a Helsinki che rivive un omicidio sbagliato. C’è Wahid che, ingannato, affonda il braccio nella miscela di gesso che in pochi minuti indurisce, dando modo agli afgani di abbassargli i pantaloni e violentarlo a turno. Ma c’è anche Suad, baciata “con passione e riverenza” in ogni poro del suo corpo, “come se ciascuno fosse una vita sul punto di estinguersi”.
Il rancore, il rimpianto, la violenza. La fede, il mistero, il pianto. La desolazione come beffarda partitura in grado di rivelare la bellezza – persino la bellezza. E poi l’immaginazione: osservatorio privilegiato dal quale interpretare la vita, qualche volta salvandola anche.
Alessandro Galano