La storia di questo libro (Henry James, Su letti di asfodelo. Lettere a Caroline Fitzgerald, a cura di Rosella Mamoli Zorzi e Gottardo Pallastrelli, Archinto, 2018, pp. 105, euro 18) è legata a una scoperta, una di quelle fortunate e fortunose, come capitano, a volte, e come è capitato all’avvocato e storico dell’arte Gottardo Pallastrelli, che a Parigi è riuscito a scovare il carteggio tra Caroline Fitzgerald e Henry James, o meglio, le lettere scritte da James, ché le altre lui le distrusse tutte per un’ansia di riservatezza che lo possedeva e di cui sappiamo. D’altronde è quel che succede ne Il Carteggio Aspern in cui James racconta la storia di un critico letterario che tenta di impossessarsi delle lettere del poeta Jeffrey Aspern, lettere che vengono però distrutte.
Ma chi era Caroline Fitzgerald?
Una giovane e ricca americana, nata nel Connecticut, e presto venuta in Europa a ritrovare e mettere radici, culturali soprattutto- il padre era un immigrato irlandese. Mal maritata con un Lord inglese, la bella e trascurata Caroline, come la descrive James – diversa dunque dalle figure che popolano la scena e i salotti delle capitali europee fin de siècle (quell’età tra la fine della Belle Époque e la Gilded Age) – o pallida e con lo sguardo lontano, come la dipinse il preraffaellita Edward Burne-Jones, nel ritratto riproposto in copertina, Caroline, con un gesto che suscitò un certo scalpore, divorziò dal primo marito e sposò in seconde nozze un medico e esploratore italiano, Filippo De Filippi che le offrì una vita fatta di lunghi, avventurosi ed esotici viaggi, due in particolare: quello in Asia centrale che li vide passare per il Caucaso, il mar Caspio e il Turkestan russo, e da cui
tornarono in Italia dopo aver visitato il mar Nero e la Crimea; e quello nella valle del Tibet dove, a Srinagar (come testimonia la foto qui a fianco), Caroline aspettò il marito per quattro mesi, probabilmente a causa della salute, minata già da giovane, che la porterà a morire a Roma la notte di Natale del 1911, a soli 46 anni. Come Daisy Miller: a causa della polmonite però, la Fitzgerald, non della “febbre romana”, cioè la malaria.
Caroline Fitzgerald fu protagonista indiscussa della sua vita, caparbia, curiosa e entusiasta, amica di Robert Browning, a cui dedicò una raccolta poetica (Venetia Victrix and Other Poems, recensito da Oscar Wilde che ne ammirò “il potente studio psicologico”) e amata da Bertrand Russell.
In queste lettere, che coprono un arco temporale che va dal 1896 al 1909 (con un’ultima datata 1912 e indirizzata al marito a qualche mese dalla morte di Madame De Filippi), se dapprima James sembra sottrarsi in ogni modo alla seduzione del bel mondo londinese a cui la Fitzgerald lo chiama, declinando inesorabilmente i suoi inviti e sgusciando come poteva, con gli anni si lega alla coppia di sincera e calorosa amicizia, soprattutto dopo che nel 1907 i De Filippi gli fecero sorvolare l’Italia, deponendolo poi intatto a Parigi, sul loro “Cocchio di fuoco”, uno dei primi esemplari di automobile in circolazione. James ne parla in una lettera a Edith Warthon del 12 agosto 1907.
In una lettera del 13 ottobre 1908 così scrive:
“Cara Madame De Filippi!
Che piacere avere vostre notizie, e di cose così selvagge e romantiche, e di energie così abbondanti, e di progressi così trionfali! La grande e rapida corrente della vostra vita, cosmopolita e ampia, mi fa sentire – per contrasto – vecchio e uggioso e semplicemente obeso! […] Avete ancora con voi il Cocchio di fuoco? Se è così, sono a una distanza (eroica- 60 miglia) tale da poter pranzare insieme e vi accoglierei teneramente. Vi prego, fatelo recepire, assieme al mio ricordo fedele e affettuoso, al vostro prode compagno e credetemi molto costantemente vostro“.
Sembra incredibile che Henry James, lo scrittore che sorvolò l’oceano per stabilirsi in Inghilterra, ma che viaggiò per l’Europa, lo scrittore, ancora, che tratteggiò figure di viaggiatori in tutti i suoi romanzi e racconti, si descriva come un vecchio uggioso e obeso. Ma, come argomenta Pallastrelli nella postfazione al libro, lui e i suoi personaggi sono “cittadini di quell’Europa-America in cerca delle proprie radici”, non quindi alla ricerca di viaggi esotici perché, come ricorda Sergio Perosa, “James viene in Europa non solo e non tanto per scrivere dell’Europa, bensì per scrivere o continuare a scrivere dell’America, dell’uomo e della donna americana nell’ambito e dal punto di vista dell’Europa”.
Nell’ultima lettera, datata 24 febbraio 1909, cioè poco prima della spedizione dei coniugi in India, James scrive:
“Fate bene ad andare nel Kashmir se ne avete l’occasione- sebbene io non ne sappia nulla di più di uno che non ha mai viaggiato. Accetto il mio destino di ignoranza del mondo e quasi la mia unicità […] Non è forse il Kashmir di divina bellezza – la vallata più bella del mondo – e non giacerete su letti di asfodelo circondati da mansuete gazzelle? Io, se dovessi accompagnarvi, rimarrei con le gazzelle e sui “letti” – se dovessi accompagnarvi, sì – come feci a Subiaco e Posillipo, indimenticabilmente. Quelli sono i miei limiti, ma , augurandovi di gioire del massimo “divertimento” con il grande avventuriero, sono, di tutti e due, il molto fedelmente vostro“.
Ecco: James preferiva giacere su quei letti di asfodelo, espressione ripresa dal poemetto di Tennyson (The lotus-eaters), da cui guardare al mondo e scriverne. Come fece instancabilmente, nonostante i disagi fisici, consegnandoci 22 romanzi, moltissimi racconti, taccuini di viaggio, saggi letterari (tra cui Le Prefazioni), opere teatrali e autobiografiche.