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Homer & Langley

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«Radunare tutta la vita americana in una sola edizione»: questa era l’idea dei fratelli Homer e Langley Collyer, realmente esistiti nella New York del primo Novecento e oggi protagonisti del nuovo romanzo di Edgar Lawrence Doctorow Homer&Langley (Mondadori, pagg. 216, euro 19). Doctorow è un autore amatissimo negli Stati Uniti, ma non solo: tradotti in oltre 30 paesi, i suoi romanzi hanno sempre suscitato polemiche e plausi. Eppure in Italia resta di culto. Siamo lontani dalle vendite dei thrilleristi svedesi e dai compagni di merende del noir italiano, ma siamo anche ad un altro livello: Doctorow fa letteratura, non intrattenimento. Il che non significa che la sua scrittura sia complessa; anzi, è ricercata ma popolare. In Italia, purtroppo, alcuni suoi libri sono da tempo fuori catalogo: possibile che un capolavoro come Ragtime sia introvabile? La speranza è che Homer&Langley abbia un tale successo da far colmare queste lacune editoriali.
Al centro qui c’è la cronaca, il caso incredibile di due fratelli. Homer (nato nel 1885) e Langley (1881), figli di un noto medico e di una cantante d’opera di New York, alla morte dei genitori ereditano gli enormi beni di famiglia. Non hanno bisogno di lavorare: i due fratelli decidono di ritirarsi nel palazzo di famiglia vivendo da reclusi. Sempre più isolati, presto diventano gli zimbelli del quartiere. I ragazzini tirano sassi alle loro finestre, li canzonano come matti, non facendo che aumentare la stramberia dei due autoreclusi. Homer e Langley diventano barboni nella loro stessa casa, incuranti del mondo e delle esigenti della società: non pagando le bollette si ritrovano senza luce n´ gas, ma questo non sembra infastidirli.
Nessuno entrò mai in quella casa fino al 1947 quando una telefonata anonima invitò la polizia a far irruzione perch´ dal palazzo proveniva un odore nauseabondo. Gli agenti si trovarono davanti uno spettacolo folle: una montagna di giornali, libri, cianfrusaglie, strani macchinari. Oltre cento tonnellate di rifiuti. Il primo ad essere trovato fu Langley, schiacciato da una valanga di carta. Poi, dopo 16 giorni di ricerche, Homer, col tempo diventato cieco e sordo: era morto di fame e di sete, sepolto da scheletri di pianoforti, quadri, pneumatici, botti di vino, biciclette, lampadari, tappeti e mobili pregiati.
Il caso fece scalpore: l’opinione americana per anni si divise in due. C’era chi li considerava degli esteti (Il New York Times scrisse un editoriale sul loro «splendore orientale») e chi dei casi patologici, tanto che nella psichiatria moderna il collezionismo ossessivo e compulsivo è noto come disposofobia o «Sindrome dei fratelli Collyer». Per Doctorow, invece, la loro storia «rappresenta senz’altro la demenza, ma allo stesso tempo rappresenta l’idea di libertà: la follia, il degrado, ma anche il genio». Per lo scrittore sono antesignani della beat generation. Con licenza di scrittura, infatti, Doctorow ha dilatato il tempo narrativo spostando l’azione di 20 anni, facendola terminare al tempo del Watergate così da includere in un unico grandioso libro la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, il Proibizionismo, la Grande Depressione, la rivolta contro la guerra del Vietnam e l’America dei figli dei fiori. Come ha dichiarato al New York Times malgrado i due fratelli si rinchiudano, «la loro storia per me è una road novel, in cui non sono i Collyer ad attraversare l’America ma è l’America ad entrare in casa loro». Quale migliore metafora dei nostri tempi (im)mediati? Nell’era di Internet più il lontano si avvicina, più il vicino si allontana: sappiamo tutto degli usi e dei costumi dei Tartari Calmucchi ma spesso non conosciamo neppure il nome del nostro dirimpettaio.

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