Mentre la barbarie riprende il sopravvento, l’intolleranza domina gli animi, soprattutto dei politici che influenzano la vox populi, il diverso fa paura e il migrante viene respinto dalle nostre coste, prendiamoci un momento di respiro filosofico-letterario leggendo l’agile ed elegante contributo del classicista e scrittore Maurizio Bettini che, con stile di immediata comprensione, anche per i non addetti ai lavori, ci ricorda i valori fondanti la classicità: sentimento della píetas, della fratellanza e della condivisione ospitale. Il
trascorrere piano delle parole, che si rivolge al popolo tutto, è indice di quello spirito democratico che anima Bettini non pago di un’opera di nicchia, ma di un contributo teso a sedare gli animi riottosi alla píetas incarnata da Enea virgiliano e non meno da Didone. L’opera non a caso si apre difatti con l’arrivo di Enea nel canale di Sicilia, nei pressi dell’odierna Tunisi, sulle coste dell’antica Cartagine. Qui la regina Didone, che
ha patito per mare gli stessi dolori dei naufragi troiani, accoglie a cuore aperto Enea e i suoi compagni: “non ignara mali miseris succurrere disco” (non ignara del male imparo a soccorrere i miseri) con l’uso di un presente, disco, che sta a significare che non si finisce mai di imparare a soccorrere i miseri, che il sentimento di pietosa ospitalità deve essere coltivato nel tempo. Anche noi oggi, in questo allarmante deserto emotivo, in questa lacuna del cuore, possiamo tornare ad apprendere i valori su cui si fondava il nostro Occidente classico, facendo dieci passi indietro a rileggere con spirito storico-filosofico-letterario i versi di Virgilio, campione della latinità, e quelli di Seneca e di Cicerone, che oggi non risuonano più come mera opera d’arte, ma come pezzi di cronaca, perché non è più la ricerca di un luogo poetico che ci spinge a leggere, ma quello di uno fisico in cui incontrarci per condividere la medesima condizione di mortali.
“Inevitabilmente- osserva Bettini- leggendo le parole di Ilioneo nel primo libro dell’Eneide il pensiero corre
ai nuovi profughi che, come i Troiani nell’Eneide, cercano di varcare il canale di Sicilia per raggiungere, come allora, l’Italia, fuggendo da morte e distruzione; e come i Troiani sono vittime di un naufragio. Ci sono
troppi dispersi nel mare che fu di Virgilio, troppi cadaveri che fluttuano a mezz’acqua perché quei versi si possano leggere solo come poesia. Sono diventati cronaca. Gli orrori del Mediterraneo hanno tolto
all’Eneide ogni innocenza letteraria”. “ C’è un luogo, lo chiamano Italia…” che non è più una topothesìa ma un miraggio, un sogno che migliaia di fuggiaschi si pongono davanti agli occhi, ben sapendo che non tutti ce la faranno. Questa è l’amara evidenza delle cose: l’Eneide non è più un poema letterario, ma storico, con tutto il dramma annesso e connesso. Allo scatenarsi della tempesta che sta per travolgere le navi, Enea, disperando ormai della vita, esclama: “o tre e quattro volte felice/chi sotto lo sguardo del padre/alle alte mura di Troia/ebbe in sorte di cadere!”
Pensieri simili travolgono i nostri naufraghi contemporanei sui gommoni o i barconi che affondano nel canale di Sicilia. “ Se questa era la sorte che ci attendeva, sarebbe stato meglio morire con gli altri in Siria, sotto le bombe, o fra i monti dell’Afghanistan”. E mentre il mare di Virgilio miete le prime vittime (“apparent rari nantes in gurgite vasto”) tanti e più numerosi oggi perdono in mare il loro sogno di approdo. La píetas antica è così profonda, e Virgilio massimamente la interpreta, che ci si chiede quale posto occuperebbe nel mondo antico la Dichiarazione universale del 1948; in quella realtà essa affonda le sue radici, e non solo in Virgilio, ma anche in Cicerone e in Seneca, nei testi degli Stoici in generale, dove siamo frammenti sotto questo grembo di cielo, partecipi della medesima natura razionale.
In “homo sum” tratto, come noto, dal testo più famoso del commediografo Terenzio, “Heautòntimoroùmenos”, si desume l’invito all’indiscrezione, a fare domande anche sgradite alla luce della condivisione della medesima umana natura: “Homo sum, nihil humani a me alienum puto” dice il coprotagonista della commedia, segnale che anche l’invadenza è lecita se a buon fine. Piuttosto che respingere gli stranieri si dovrebbero loro rivolgere domande sulla loro provenienza e condizione, perché si sentissero capiti e accolti; questo il senso del titolo del volumetto di Bettini.
“Proviamo però ad immaginare come reagirebbe oggi Ilioneo vedendo l’atteggiamento che non solo un buon numero di Italiani, ma purtroppo anche chi li governa, sta sviluppando nei confronti dei profughi e dei naufraghi che tentano di raggiungere le nostre coste”. “ Quale mai tanto barbara patria permette questi usi?” tornerebbe ad esclamare. “ Ci nega accoglienza alla riva… e ci caccia dal margine estremo del lido”.
Virgilio certo non conosceva l’Articolo 10 della nostra Costituzione , relativo al diritto d’asilo nella nostra Repubblica per chi non può esercitare nel suo paese la libertà democratica, eppure Ilioneo anticipa di duemila anni questo Principio fondamentale della Costituzione italiana.
Come dimenticare, allora quel testo capitale di Seneca che precorre l’articolo uno della Dichiarazione del 1948? Esso enuncia: “ Siamo le membra di un grande corpo. La natura ci ha generati parenti, poiché siamo formati dagli stessi elementi e tendiamo allo stesso fine. Essa ha instillato dentro di noi un amore reciproco e ci ha fatto socievoli”. Fondando il cosiddetto “ Ius humanum” che ci spinge ad agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. La stessa libertà di parola affonda le sue radici in quella parresìa di origine ateniese; ed è per libertà di dire e per intima convinzione che consiglio questo contributo di Bettini, che, attraverso rimandi classici, rilancia la necessità di capirci come umani, eredi del pensiero mite virgiliano e del sano equilibrio incarnato dalla filosofia stoica.