Una nuova edizione integrale dell’opera narrativa di Howard Philips Lovecraft edita da Fanucci Editore ci permette di rileggere la profana cosmologia di uno dei più influenti autori del XX° secolo, non solo dal punto di vista letterario (viene considerato uno dei padri fondatori dell’horror) ma perfino transmediatico poiché le sue visioni oscure vengono tutt’ora oggi metabolizzate dal mondo fumettistico, videoludico e cinematografico. L’edizione Fanucci è un tomo poderoso a cura del professor Carlo Pagetti, una delle più acclamate penne accademiche sulla letteratura fantastica (in particolar modo per quanto concerne la science-fiction), che firma anche una gustosa introduzione per coinvolgere i fruitori dell’opera lovecraftiana. Molto apprezzato un indice chiaro e facilmente consultabile dove i racconti vengono suddivisi per genere: “Racconti dell’orrore cosmico”, “Racconti gotici”, “Racconti fantastici”, “Racconti scritti in collaborazione” e un’appendice con “Gli esordi narrativi”. Il volume è però aperto dai romanzi lovecraftiani, forse una scelta ponderata del curatore per offrire ai lettori moderni testi più consoni alla loro indole (visto che molti sono poco abituati alla narrativa breve). Aperto il volume quindi ci confrontiamo con “Alle montagne della follia”, “Il caso Charles Dexter Ward” e “La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath”. Il volume è inoltre arricchito da alcune note bibliografiche a cura di Pagetti e una sua nota che spiega la suddivisione del materiale. Ma forse è ora di perdersi nelle pieghe di un racconto. Nel 1921 usciva sulla rivista Wolwerine uno dei primi racconti del ciclo dei miti di Cthulhu: La Città senza nome. Lovecraft ci presenta un protagonista narrante, probabilmente un esploratore, un archeologo o un antropologo. Durante il suo peregrinare, riesce a scovare finalmente quello che agognava da tempo: le vestigia della Città senza nome. Tra le vallate ricoperte di sabbia intravede le macerie di una costruzione scampata alla furia del diluvio (biblico), probabilmente una costruzione “bisnonna della più vecchia delle piramidi” sperduta nel deserto dell’Arabia. Si assaporano le atmosfere del più classico dei romanzi gotici, il chiarore della notte, le inquietanti sensazioni che soltanto un antico e diroccato monumento del passato può emanare e il caos delle rovine sparse sulla sabbia. Più antica “delle prima pietre di Menfi”e dei “mattoni di Babilonia”. La Città senza nome si è persa nella leggenda, ha una storia che è oltre il preistorico, il pre-umano, probabilmente ha una natura pre-creazionista. Nel deserto arabico “nelle tende degli sceicchi” e tra le tribù dei beduini circolano leggende e macabri racconti, ma il narratore non è spaventato da questi moniti; anzi è attratto. In questo racconto c’è la prima menzione al poeta Abdul Alhazred, che sognò la Città senza nome e lasciò ai posteri questo distico enigmatico: “Non è morto ciò che in eterno può attendere e col passare di strani eoni anche la morte può morire”. Sopraggiunta la notte l’anonimo protagonista si avventura nei dedali della Città, scioccato ammira pareti dove non c’è nessuna testimonianza degli arcani abitanti, nessun affresco, mosaico o segno di un passato popolato da abitanti ingegnosi. Una città che ha perso la memoria dei suoi stessi costruttori. Lentamente scopriamo le volontà del protagonista, il suo scopo la “ricerca di reliquie della razza perduta”. Probabilmente siamo al cospetto di uno di quegli antropologi che cercano il ceppo comune da dove tutte le etnie provengono, le prove archeologiche di un’eugenetica primordiale e atemporale; la torre di Babele del corredo genetico. Finalmente il protagonista trova l’accesso a una camera segreta con le vestigia dei popoli antidiluviani. Il protagonista percepisce una strana presenza, non è in grado di decifrare se è una sua impressione, il vento del deserto che impetuoso assale la costruzione o se fosse al cospetto di qualcosa di realmente inspiegabile. Ma il fascino dell’Altrove è così forte che gli permette di ignorare la propria paura. In quello spazio angusto riesce a scorgere le prime tracce della pittura parietale dell’ancestrale razza umana, ed è un caos di elementi sinuosi e confusionari. L’avventuriero continua la sua discesa, sempre in spazi più stretti, avendo bene in mente le parole e le maledizioni degli arabi; lo avevano avvertito dopo tutto di non avvicinarsi alla città senza nome. Ma animato dalla ricerca dell’ignoto “come un vagabondo, un cacciatore di luoghi remoti, antichi e proibiti” riesce a trovare una cripta misteriosa. Non una semplice reliquia di tempi immemorabili ma “un monumento d’arte esotica e squisita” con “motivi ornamentali e pitture vivide, incredibilmente fantasiose”. Riesce ad aprire dei sarcofagi ma l’orrore che trova al loro interno è indescrivibile; creature ripugnanti e mummificate simili a rettili. Dagli affreschi si può leggere la storia della civiltà, che il protagonista reputa allegorica. Una metropoli lussureggiante sorgeva sulla costa, ancora prima che l’Africa sorgesse dalle onda, in lotta contro l’avanzare del deserto e il ritirarsi delle acque. Guerre e catastrofi, e poi una via per la salvezza; scavare nella roccia fino a cercare un paradiso sotterraneo. Non un popolo primitivo, ma dotato di alfabeto, sistemi di calcolo, fervida capacità edilizia e sensibilità. Il protagonista è confuso, non si capacita del perché in questo epico racconto parietale è assente la “morte”; certo gli abitanti vengono uccisi o si ammalano, ma non è presente un interesse verso la morte naturale o alla semplice concezione di trapasso. “Come se avessero voluto coltivare un illusorio ideale di immortalità”. In seguito l’avventuriero riesce a trovare un passaggio che conduce verso le profondità; in quell’abisso fosforescente ci sono figure indefinite “angeli dell’abisso” che cercano di trascinare l’esploratore nel loro paradiso. Mentre recita tremante il distico del poeta impazzito Abdul Alhazred, rimane intrappolato nella terra dei mostri. Si oppose al suo mondo, non descrivendo i classici stereotipi gotici dei vampiri o dei fantasmi ma andando oltre. Creò un pantheon primordiale o terrificante di entità dimenticate, inconoscibili, mostruose e amorfe; figlie del tempo, dello spazio della ultra-trasgressione fantastica. E se fino a Lovecraft la letteratura aveva dato una dimensione “umana” alla paura con le sue opere si diventava (in)consapevoli dell’Oltre, non situato nel mondo interiore o in qualche luogo esclusivamente esotico, ma nello spazio profondo. Ecco perché venne definito da Fritz Leiber “un Copernico letterario” e da Jacques Bergier “un Poe cosmico”, Lovecraft aveva proiettato nell’etere tutto il terrore che aveva sempre provato, colonizzando lo spazio, trovando nuovi mondi. In un’epoca dove si erano formalmente concluse le scoperte geografiche, dove molti scrittori si rifugiavano nei propri sub-mondi o “secondary worlds” , Lovecraft con la sua penna esplorò l’ignoto tra le stelle. Le sue storie erano galassie e sempre lo saranno.
Cristiano Saccoccia
Howard Philips Lovecraft
Traduttori vari
ed. Fanucci
24 euro