Le nuove edizioni che Armenia propone dei racconti lovecraftiani, Dagon e La città senza nome, sono degli eleganti tomi cartonati, con le evocative illustrazioni a matita del talento d’oltralpe Armel Gaulme.
La collana, infatti, si intitola Lovecraft. Racconti illustrati e si rifà all’originale, pubblicata in Francia dall’editore Bragelonne. I disegni di Armel Gaulme impreziosiscono di molto i testi, accompagnando con potenza immaginifica e iconografica tutta la lettura. Infatti, parliamo di opere davvero dotate di un ben presente piglio artistico. Un lavoro editoriale che dovrebbe essere nelle biblioteche di tutti gli appassionati del weird e di tutti i cultori di Lovecraft.
Con Dagon siamo davanti a uno dei primi racconti di Howard Phillips Lovecraft, apparso nel 1919 su The Vagrant e poi assorbito nel ’23 da Weird Tales.
Ovviamente il nome di questa short story ha una preponderante matrice cananea, poiché Dagon era una divinità del pantheon semitico-mesopotamico.
Nonostante sia un racconto “giovanile”, al suo interno ci sono le fondamenta del Lovecraft più maturo grazie ad alcuni topoi che diverranno ricorrenti nelle sue narrazioni future: dal protagonista impazzito alla creazione e rimodellamento di un cosmo mitologico di derivazione dunsiniana (Lord Dunsany, estremamente amato dal Solitario di Providence). Un’altra caratteristica lovecraftiana è qui ben presente, ovvero che tutti i conoscenti del protagonista lo accusano di essere malato, stressato o di essere vittima di istanze allucinatorie. Anche se la “realtà” è ben diversa e ha una potenza onirica e orrorifica di portata devastante.
Infatti le ultime parole del protagonista, che annota ossessivamente le sue ansie in un diario, si rivolgono a un Dio sordo, mentre una divinità ctonia e abissale bussa alla sua porta, alle sue finestre, dentro la sua mente.
Nel ’21 usciva sul pulp magazine Wolwerine uno dei primi racconti del ciclo dei miti di Cthulhu: La Città senza nome. Il protagonista narrante è un esploratore, un archeologo o un orientalista. Durante il suo vagare, scopre finalmente quello che agognava da tempo: le macerie della Città senza nome. Tra le vallate ricoperte di sabbia intravede una costruzione scampata alla furia del Diluvio. Siamo avvolti da atmosfere gotiche e cimiteriali, in mezzo alle dune d’Arabia. Più antica “delle prime pietre di Menfi”e dei “mattoni di Babilonia”, la Città senza nome si è persa nella leggenda.
Nel deserto arabico, “nelle tende degli sceicchi” e fra le tribù dei beduini circolano leggende e macabri racconti, ma il narratore non è spaventato da questi moniti anzi, ne è attratto. In questo racconto c’è la prima menzione al poeta Abdul Alhazred, che sognò la Città senza nome e lasciò ai posteri questo distico enigmatico: “Non è morto ciò che in eterno può attendere/e col passare di strani eoni anche la morte può morire”. Sopraggiunta la notte, l’anonimo protagonista si avventura nei dedali della Città. Scioccato ammira pareti dove non c’è nessuna testimonianza degli arcani abitanti, nessun affresco, mosaico o segno di un passato popolato da abitanti ingegnosi. Una città che ha perso la memoria dei suoi stessi costruttori.
Lentamente scopriamo le volontà del protagonista, il suo scopo è la “ricerca di reliquie della razza perduta”. Probabilmente siamo al cospetto di uno di quegli antropologi che cercano il ceppo comune da dove tutte le etnie provengono, le prove archeologiche di una eugenetica primordiale e atemporale: la torre di Babele del corredo genetico.
Finalmente il protagonista trova l’accesso a una camera segreta, con le vestigia dei popoli antidiluviani. Lì percepisce una strana presenza. Non è in grado di decifrare se è una sua impressione, se è il vento del deserto che impetuoso assale la costruzione o se si trova al cospetto di qualcosa di realmente inspiegabile. Ma il fascino dell’Altrove è così forte che gli permette di ignorare la propria paura. In quello spazio angusto, riesce a scorgere le prime tracce della pittura dell’ancestrale razza umana, ed è un caos di elementi sinuosi e confusionari.
L’avventuriero continua la sua discesa, sempre in spazi più stretti, avendo bene in mente le parole e le maledizioni degli arabi; lo avevano avvertito, dopo tutto, di non avvicinarsi alla Città senza nome. Ma animato dalla ricerca dell’ignoto, “come un vagabondo, un cacciatore di luoghi remoti, antichi e proibiti”, riesce a trovare una cripta misteriosa. Non una semplice reliquia di tempi immemorabili, ma “un monumento d’arte esotica e squisita” con “motivi ornamentali e pitture vivide, incredibilmente fantasiose”. Riesce anche ad aprire dei sarcofagi, ma l’orrore che trova al loro interno è indescrivibile: creature ripugnanti e mummificate simili a rettili.
Dagli affreschi si può leggere la storia della civiltà, che il protagonista reputa allegorica. Una metropoli lussureggiante sorgeva sulla costa, ancora prima che l’Africa sorgesse dalle onde, in lotta contro l’avanzare del deserto e il ritirarsi delle acque. Guerre e catastrofi, poi una via per la salvezza: scavare nella roccia fino a cercare un paradiso sotterraneo.
Non un popolo primitivo, quindi, ma dotato di alfabeto, sistemi di calcolo, fervida capacità edilizia e sensibilità.
Il protagonista è confuso, non si capacita del perché in questo epico racconto parietale sia assente la “morte”. Certo gli abitanti vengono uccisi o si ammalano, ma non è presente un interesse verso la morte naturale o la semplice concezione di trapasso. È “come se avessero voluto coltivare un illusorio ideale di immortalità”.
In seguito l’avventuriero riesce a trovare un passaggio che conduce verso le profondità. In quell’abisso fosforescente ci sono figure indefinite, “angeli dell’abisso”, che cercano di trascinare l’esploratore nel loro paradiso. Mentre recita tremante il distico del poeta impazzito Abdul Alhazred, rimane intrappolato nella terra dei mostri.
Cristiano Saccoccia
Recensione a Dagon e La città senza nome di Howard Phillips Lovecraft, Armenia Editore 2021, trad. Eleonora Baron, ill. Armel Gaulme, pagg. 80 cad., € 14,50 cad.