Silvia Tebaldi vive a Bologna. Per lavoro si è occupata di libri e manoscritti, di scrittura professionale e tecnico-giuridica, di documentazione biomedica e di fotografia. Dopo il romanzo Vuoto centrale (Perdisa Pop, 2009), ha pubblicato nella collana 42Nodi di Zona 42 Quattro lune di Giove al Capo delle Volte (2021), Il lettore dell’acqua (2023) e I giorni del vuoto (2024). Alcuni suoi racconti e testi in versi sono presenti in antologie e in riviste online.
Mario Schiavone
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Da lettrice e autrice di generi dall’immaginario potente, e da artista attenta e sensibile quale sei, al momento come vedi lo stato di salute dell’editoria di fantascienza in prosa in Italia?
Vedo uscire eccellenti libri di fantascienza e dintorni – sia classici riscoperti che novità, sia esordienti che non, sia in traduzione che italiani – grazie in particolare a ottime realtà editoriali indipendenti. E vedo anche testi ascrivibili in parte o in tutto alla categoria “fantascienza”, pubblicati da editori mainstream in collane non connotate dal genere e senza che la parola fantascienza sia esplicitata: che sia un retaggio della vecchia dicotomia generi – letteratura tout court, che sia marketing o altro che non so, tuttavia mi ricorda qualcosa.
A quindici anni, mossa da una precoce ecoansia, leggevo delle cose di Buzzati, di Scerbanenco, di Calvino che certo erano fantascienza, ma non di quella fantascienza roboante, imperialista e guerresca, che andava allora per la maggiore: e infatti non erano definite fantascienza, ma piuttosto narrativa d’autore.
Lasciando da parte i miei déjà-vu, penso ci sia un ingorgo semantico: tra fantascienza, o science fiction o speculative fiction, intesa come esperimento del pensiero e mondi possibili, da un lato; e dall’altro, “fantascienza” come categoria diciamo merceologica.
Intanto la realtà, come sempre, va più avanti. Ed è sempre più distopica e fuori dagli schemi. A tal proposito, mi permetto di raccontarvi chi mi è apparso in sogno l’altra notte. Era un uomo in età, con la barba, sull’uscio di una merceria di Ferrara che non c’è più da secoli. E quest’uomo, che non so se fosse Ray Bradbury o sant’Agostino, mi diceva: so che cos’è la fantascienza, se nessuno me lo domanda, ma quando me lo domandano non lo so più.
Quali sono gli autori italiani e stranieri, viventi e non, che reputi canonici per la tua ricerca letteraria?
A poco più di vent’anni ho letto i libri di Julio Cortázar già tradotti in italiano, poi mi sono organizzata e ho letto anche gli altri, in lingua. Non erano in programma d’esame, nessuno mi avrebbe dato un voto, bastava un dizionario e una passione.
E poi allo stesso modo ho letto un bel po’ di Onetti, Raduan Nassar in portoghese brasiliano, e i libri che costituiscono Kalpa Imperial di Angélica Gorodischer, solo di recente tradotti in italiano grazie a Rina edizioni, a Giulia Zavagna e Loris Tassi.
Prima che mi mettessi a scrivere sono passati poi molti anni, ma l’innesco è stato quello: grandissime voci, grandissime storie, ma intanto affrontare la lingua che fa resistenza al racconto, al cosiddetto contenuto, perché è una lingua altra. E frequentare quelle lingue parenti poi fare i conti con la mia, molto più straniera e straniata di quanto pensassi.
Del resto, se io sono di madrelingua italiana non lo erano né mio padre e mia madre, né le mie nonne e i miei nonni, la cui lingua madre era un dialetto: in quella babele neolatina e plebea era il principio di ciò che ho poi scritto.
Al presente mi risuona molto la scrittura di Andrea Gentile, così come Undrowned di Alexis Pauline Gumbs, tradotta e pubblicata di recente dalla gente meravigliosa di Timeo.
Qual è stato il primo libro, racconto o romanzo in prosa, che hai letto e che ti ha spinto a immaginare ammalianti mondi narrati con le parole?
Nell’estate in cui combattevo con una specie di balbuzie leggendo ad alta voce, da sola, in giardino, mi capitò a tiro una riduzione in prosa delle Metamorfosi di Ovidio.
Non ne sapevo nulla, di Ovidio, ma quel mondo di prodigi mi incantò. Solo, di quel libro – un’edizione per ragazzi – non mi piacevano le illustrazioni, e avrei voluto rifarle io: impresa superiore alle mie capacità, visto che avevo nove anni e mezzo, però almeno qualche disegno lo ho fatto – ricordo una striscia con Filemone e Bauci, che si parlano. E un frammento di Orfeo.
Qual era la via di accesso ai libri, da piccola, per te che abitavi in un territorio del centro nord che probabilmente già offriva l’accesso a librerie e biblioteche ben fornite?
Su uno scaffale a casa c’erano certi classici tradotti, che ho divorato perché la mia mamma mi diceva, con grande astuzia, che non erano libri adatti per ragazzine.
E Gialli e Urania un po’ dovunque.
Poi c’era la biblioteca di un quartiere fuori porta, dove andavamo in bicicletta, ai tempi delle medie, con le mie amiche. E la scampagnata e i romanzi erano tutt’uno, in puro stile Jane Austen tranne che per le biciclette (grazie, Cinzia e Lorenza, per quei pomeriggi).
Della mia infanzia ferrarese ricordo, peraltro, più cartolerie che librerie: in effetti erano perlopiù cartolibrerie, un ibrido tipico di allora, una specie di ippogrifo commerciale.
Quanto la formazione universitaria che hai avuto ha alimentato la tua voglia di leggere e scrivere storie fuori e dentro il canone dei generi?
Nei primi anni del liceo ho avuto un grandissimo prof di italiano, che ci insegnò l’analisi testuale con metodo strutturalista: quell’esercizio laico e tecnico, diverso e distante da storia letteraria, biografie di autori, discorsi sui generi o sulle belle lettere, era un amore già maturo quando arrivai all’università. Così ho così potuto innamorarmi della babele neolatina, della trasmissione del testo, delle vicende dei libri e di quei microcosmi che sono i manoscritti antichi (che è infatti improprio definire “libri”) e della documentazione.
Insomma, una cassetta degli attrezzi che mi è stata utile sia nei lavori che ho fatto per la cosiddetta pagnotta, sia quando molti anni dopo mi è venuta voglia di provare a scrivere.
Ripensando ai tuoi libri usciti in libreria negli anni, che giudizio daresti al tuo percorso autoriale in Italia rispetto al ruolo di critici letterari e rispetto a quello degli editori che hanno curato e pubblicato i tuoi libri?
Come dicevamo poco fa, per molti anni non mi è nemmeno venuto in mente di scrivere. Avevo troppo da fare. Poi nel 2002 mi sono iscritta a un laboratorio di scrittura di Luigi Bernardi e mi si è aperto un mondo: fine di varie pie illusioni piccoloborghesi, apertura di significati, persone con cui confrontarmi. E la conferma che narrare e scambiare narrazioni è necessario per sopravvivere. In quella cornice è nato Vuoto centrale, uscito nel 2009 in una collana diretta da Luigi Bernardi per la bolognese PerdisaPop: era un romanzo breve, su cui lavorai grazie al sostegno di Antonio Paolacci – un’altra grande fortuna della mia vita – un romanzo che ebbe una sua piccola vita però non morì. Ricevere giudizi e recensioni è stato importante – come anche non riceverne – e mi ha fatto bene, del resto con me stessa ero già abbastanza esigente.
Poi ho scritto solo pochi racconti, quando credevo nel progetto di chi me ne chiedeva. E poi ho conosciuto la gente meravigliosa di Zona42 e ho avuto la fortuna di lavorare con Giorgio Raffaelli e Chiara Reali, con Michele Vaccari ed Elena Giorgiana Mirabelli, e ora anche quel vecchio romanzo è tornato al mondo in una forma nuova, dentro la mia piccola trilogia del Guasto.
Come – e quando lavori – alle tue storie da scrivere rispetto anche al tuo lavoro artistico di disegnatrice?
Questa, per me, è davvero la domanda fondamentale.
Scrivo ancora a mano le prime stesure, anzi comincio a scrivere oppure a disegnare indistintamente e poi questi due fiumi confluiscono, non so mai bene quando come e perché.
Sono una persona sinestetica e spesso suoni e segni, colori e lettere e numeri si confondono, cosa non sempre semplice nella vita diciamo pratica, feriale e diurna: ma scrivere e disegnare stanno lì come due pratiche contigue, spesso ibride, appunto confluenti.
Che consigli daresti a un aspirante scrittore italiano (magari anche appassionato fruitore di fantasy e fantascienza) che viene a bussare alla tua porta di casa nel 2024?
Leggi ciò che ti piace ad alta voce. Scrivi spesso soltanto per fare fiato, cioè senza progetto senza fermarti senza correggere, e senza più rileggere per giorni e giorni. Non aver fretta di condividere in pubblico.
Coltiva un gruppo solidale e non giudicante, trova un riferimento affidabile e onesto – coach, editor, counselor, mentore o docente – e fidati. Paga ed esigi il dovuto.
Pettegolezzi, malignità, invidie e altre passioni tristi bruciano molta energia, che per scrivere ti serve tutta: quindi, prendi misura.
Ti serve imparare a meditare, ma non al fine di scrivere meglio o aver successo o vincere l’ansia o le avversità: medita per meditare, che è poi il fine specifico della meditazione.
Infine, quale bonus track, l’aureo precetto di Horacio Quiroga: scrivi come se ciò che scrivi dovesse avere importanza solo per un ristretto gruppo di persone che conosci, uno dei quali potresti essere tu.
Di cosa tratta il tuo ultimo lavoro letterario ancora inedito e cosa desideri per questa storia?
Sto scrivendo sui fantasmi: sulla morte, per quel poco che ne sappiamo, e sulle figure della depressione. E sull’insinuarsi tra loro della gioia anteriore, la gioia che non ha causa né opposto.
Non so cosa diventerà, quale forma prenderà. Ma scrivo, e scriverne è ciò che desidero.
Raccontaci qualcosa sul processo creativo legato ai tuoi ultimi due libri ( “Il lettore dell’acqua” – 2023 – e “I giorni del vuoto” – 2024) considerata la tua presenza in catalogo presso Zona 42 – un coraggioso e valido editore di “fantascienza e altre meraviglie” che ha compiuto dieci anni di fortunata vita editoriale proprio in questo periodo.
Il lettore dell’acqua lo avevo scritto in un laboratorio di Luigi Bernardi, nel remoto 2005, con addosso un lutto ancora indomabile, e per anni quel testo è rimasto inedito, nascosto dentro una RAM. Poi lo ha letto la mia cara amica Alessandra Terni ed è tornato al mondo.
Nel frattempo Zona42, per la cura di Chiara Reali, aveva pubblicato Quattro lune di Giove al Capo delle Volte, una novella che avevo ambientato in una realtà emiliana un tempo fiorente, poi in profonda crisi ambientale e sociale: una storia di guasti e solitudine, di riscatto e di gioia.
Anche Il lettore dell’acqua era una storia di cambiamenti e guasti, di malattie e guarigione, anch’essa era ambientata in Emilia, e i suoi personaggi avevano continuato a darmi noia mentre il file giaceva nel chiuso della RAM: così avevo pensato a una storia che raccontava rapimenti, strane morti e grandi amicizie tra quegli stessi personaggi e altri nuovi, in una Bologna incerta tra memoria e futuro, e quello fu Vuoto Centrale, il romanzo di cui parlavamo poco fa.
Il lettore dell’acqua, con l’editing e la cura di Michele Vaccari, è venuto alla luce nel 2023, nella collana di narrativa breve 42Nodi di Zona42, la stessa delle Quattro lune di Giove.
E come già Deneb e Alrai di Quattro lune anche Elia, Mara e Rita, Rui, Reba e Regina, protagonisti del Lettore dell’acqua, hanno ricevuto l’affetto dei lettori dei 42Nodi. Così ho provato a riscrivere ciò che era stato Vuoto centrale. Ed è stata una strana impresa, cancellazioni e addii, segni rossi sulla carta, e quella riscrittura ora è una novella dal titolo I giorni del vuoto, per la cura di Elena Giorgiana Mirabelli; un’altra bellissima copertina; un altro dei 42Nodi e il terzo tempo di quella piccola epica del guasto.