Non è raro avere due amici storici con lo stesso nome senza che loro si conoscano; ma che finiscano dirimpettai nella frazione di un paesino di 500 abitanti! Mattarana di Carrodano, Piero Motta e Piero Milesi. A distinguerli senza remissione c’è che il secondo è morto. Tengo per me lo strazio, qui lo ricordo per un libretto con un bitesto di Asger Jorn, Silenzio della musica, centrato sul momento in cui i musicisti smettono di suonare. Lo sfidai a musicarlo: “quadratura del cerchio” sibilò perplesso. Tornò raggiante un mese dopo: “uovo di Colombo”, mostrandomi lo spartito: era una fuga, le cui note si raggruppavano graficamente a formare Musica del silenzio (registrata da lui al piano, l’ascoltammo in tanti al Piccolo la sera dopo i funerali: era lo stesso Piero vivo che aveva arrangiato Anime salve di Faber e diretto la taranta in Grecìa)…
Basta. All’inizio si guatavano come gatti, poi si annusarono fino a diventare amici.
Piero Motta dipinge figurativo, ma allora aggrediva la tela con manate di colore. In una delle mie bivisite, mi mostrò la trascrizione delle memorie dettategli anni prima dalla defunta suocera, per mezzo secolo ostessa della Ca’ Matta di Peschiera Borromeo: erano microstorie scoppiettanti di avventori e stagioni, di beghe e amorazzi, che mi tirarono dentro finché ne uscii con un bitesto. La volta dopo Piero mi consegnò 44 cartoncini violentemente tricolori, e il libretto era fatto.
P.S. Gliele lesse spesso quando fu poi colpita dall’alzheimer, e la reazione ad ogni microstoria era: “credi no che l’è vera”.
25 APRIL
Quan che l’è andà giò ’l duce, laurava pü nisün; se vurevet fa, püsè che bev feven no.
Ben, verso sera vün l’è ’ndà lì in di gabinet a fa i so bisogn; se capis che l’ha fa in temp no , l’ha fada den in di mudand.
Pö dopu l’ha cavà i mudand e i ha lasà lì den in gabinet.
La Chechina Mirra, l’è ’ndada là i ha vist l’ha ciapà un toc de legn lung, ’na pertiga, i ha mis sü, e pö la gireva lì in curt: de la cuntentesa che l’era ’ndà giò ’l duce.
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LASCERADUPIA
Me ricordi quan ghera Lasceradupia, al giuedì. Ciapeum i taul e i metevum suravia di alter, e tüt i sedi tam me in gesa.
Ghera vün che rivava semper per primo, se meteva là visin a la stüa e ’l beveva mai nient.
Mi una sera gho fugà ben ben la stüa: per forsa l’ha doü bev!
Quando è caduto il Duce, non lavorava più nessuno; cosa vuoi, più che bere non facevano. Bene, verso sera uno è andato in gabinetto a fare i suoi bisogni; non deve aver fatto in tempo, l’ha fatta nelle mutande. Dopo si è tolto le mutande e le ha lasciate nel gabinetto. La Cecchina Mirra è andata là, ha visto, ha preso una pertica, ha issato le mutande e poi girava in corte: dalla felicità che era caduto il Duce. // Mi ricordo quando c’era Lascia o raddoppia, al giovedì. Prendevamo i tavoli e li mettevamo uno sopra l’altro, e tutte le sedie come in chiesa. C’era uno che arrivava sempre per primo, si metteva vicino alla stufa e non beveva mai niente. Una sera io ho riempito ben bene la stufa: ha dovuto bere per forza!
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