“Giorgini! Chi era costui?” Con questa domanda esclamativa che scrissi alla lavagna cominciò la giornata più pazza mai vissuta ad Architettura. Non so com’è adesso, ma allora gli studenti di progettazione del quinto anno s’intruppavano in un maxicorso coordinato da Maurizio Vogliazzo (un architetto vero mica un assessore, con la curiosità di un Mollino, l’ironia di un Gio Ponti, la sprezzatura di un Corrado Levi, e una poetica tutta sua). In quell’orto d’ingegni (gli studenti intendo), io ero il prezzemolo. Perciò arrivavo prima degli altri docenti, e scaldavo l’ambiente. Quell’anno Decio Guardigli lanciò il tema: un centro di prima accoglienza (mica difficile, bastava fare il contrario della realtà). Non so perché, ma al primo raduno concionai su “taglio e limite” e dopo un’ora, vedendo facce stanche, proiettai la Salomè di Carmelo Bene (detentrice del record assoluto di tagli – pellicola intendo, mica testa), onde destarli o definitivamente assopirli. Il week-end dopo, per l’Alta Maremma in cerca di un rudere, m’ero imbattuto a Baratti in una struttura a stella di putrelle e legno, abbandonata chissà da quanto ma in perfette condizioni. Mi dissero che era del WWF, che ci abitavano d’estate 6 famigliole al colpo, perché le 6 punte erano 6 miniappartamenti: incredibile visu! Là vicino, una casa in cemento – casa? l’ho saputo dopo, dal gestore della vicina pizzeria La Perla; lipperlì una forma pura di argilla grigia, liscia e sinuosa, modellata a mano: non fossi stato ateo avrei detto dio, avessi creduto ai miti avrei detto un gigante – invece “l’è’l Giorgini” (il gestore), “mai sentito nominare” (io). Passando da casa per tornare a Milano, mi feci dare da Gino Casabianca, ex-compagno di banco alle elementari e ceramista in proprio (Cartigliano sul Brenta è dirimpetto a Nove di Bassano), un panetto standard di argilla più il filo per tagliarlo; già che c’ero (così usa da noi), Gino mi riempì la kangoo di ceramica difettata, e così bello carico mi presentai il giorno dopo al Poli. Chi tagliava la fetta più sottile vinceva (per misurare appallottolavamo e pesavamo col classico aggeggino da fumo) un pezzo di ceramica (1° premio: gallo senza cresta; 2°: composizione di frutta affumicata ecc.). Al 3° raduno, v. sopra lavagna – scena muta: “embè? avete il nome, cercate!”. Si sparpagliarono in giro, chi in biblioteca, chi in altre aule occupate da altri insegnamenti, uno perfino in presidenza. Io intanto stavo saldo in cattedra (modello task force). Pian piano giunsero le notizie, l’atmosfera da perplessa si fece eccitata, da caccia al tesoro: e che tesoro! Innanzitutto era vivo, ma a New York, insegnava al Pratt Institute da 30 anni: fatti i conti, se n’era andato da Firenze nel ’68; la casa era del ’62, poi non aveva costruito più nulla, ma progettato tanto, roba avveniristica che non poggiava quasi a terra per via di certi cavi in tensione… A metà pomeriggio eravamo tutti innamorati, perciò lanciai l’idea: “facciamogli un regalo!” “ sìììì, ma cosa?” “cercate in giro roba di architettura” – pensavo a una specie di laurea selvaggia honoris causa. Sempre lì saldo in cattedra (modello monte dei pegni): chi arrivò con moduli di segreteria, chi con maquettes di risulta, molti con polaroid scattate all’uopo, uno con una piastrella di Gio Ponti della facciata (mi giurò di non averla staccata, di averla trovata a terra). Caricai tutto in macchina, nel week-end andai a Firenze, tipografia Coppini, donde era appena semiclandestinamente uscita la 1° edizione di Le religioni plagiano, ne comprai due copie e mi feci dare il telefono dell’autore – un’ora dopo stavamo alle Giubbe Rosse a chiacchierare. Riassumo: il padre aveva creato l’alta moda italiana, creato ex nihilo perché prima non esisteva; bizzarro importatore di oggettistica statunitense durante il fascismo, tanto ricco quanto anglofilo (a casa sua passò la futura regina Elisabetta, stazionò in pianta stabile un giovanissimo Orson Welles…), subito dopo la guerra pensò di usare le nostre bellezze rinascimentali da specchietto per i compratori americani. C’era un problemino: Parigi, lost generation, Coco Chanel ecc. – e l’Italia era in ginocchio, anzi in stracci. Batté tutte le porte e le regioni (a Nove se lo ricordano ancora, con la sua bentley nera che riempiva di ceramiche non difettate), spronò, urlò, e il 24 febbraio 1951 a Palazzo Pitti… Con la casa-elefante Vittorio provò un sistema di reti metalliche su cui spalmare cemento: come negli affreschi, doveva essere fatto tutto in progressione, senza giunte. Gli andò bene, la casa è ancora lì senza quell’aria triste che hanno molti edifici novecenteschi d’autore. La foto del libretto è da un negativo datomi da Vittorio; il bitesto è composto da due classici estremi dell’architettura: l’iscrizione incisa dalle maestranze sulla pancia dell’elefante (l’ho copiata io, manco si ricordava); e una lettera aperta di Emilio Villa (in effetti chiusa), datami sempre da lui. La storia è andata avanti, quella sua e quella nostra: in USA s’era recato per un workshop con Rauschenberg… nel 1976 lanciò i suoi studenti del Pratt in un’avventura meravigliosa finita male: la costruzione a Liberty di una casa di vacanza per ragazzini di Harlem… La raccontò in un secondo libretto del ragazzo ubicuo, e non fossimo in rete prometterei, come prometterei la storia di quel rudere dietro Bolgheri che mi aiutò con la sua Caroline a (ri)strutturare e fu la mia rovina… ma da tempo ho capito che qui in rete tutti s’interessano di tutto, ma poi in fondo di niente.
SOPRA CI SCRIVERAI A RINO, NENA, ALBERTO SALDARINI CHE PER CORAGGIO ED AMORE A NATURA CI HANNO DATO MANO, NOI, OPERAI MURATORI BEPPE MENECHINI ENZO MEINI XENIS BRANCALACCI ARMANDO FRANCHINI URBANO LEPRI GINO SALVADORI VITTORIO GIORGINI FRANCI RIGHI E IL CIOMPO DIAMO MANO
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Espaceblessé-espacelibéré, il n’y aura plus ni lumière ni ténèbres (lux in tenebris), ni espace nu-clé-air, mais l’écran/distropie, mais nucléair, mais architectureffroi, architectureffraction, le Champ Incertain: campo dell’architettura dell’inaccessibile, delle genealogie fluenti dell’inaccessibile, intensificazione e contrazione, sottrazione e immensificazione, continua-non-continua, leggenda futura, dimora flessibile, agganciare-agganciarsi, che sospinge e fa scivolare l’inaccessibile verso le remore dove esso si attesta tappa fuggente, essenziale e necessaria, preda oscillatoria e vessante, despiratoria, svelata, cui non sia adesiva la mira, l’occhio-mira, l’occhio-corpo, ma l’aggressiva eiezione, torbida, nubifragica, -fragica: scossa e fremito, dose e frequenza del PLEROMA… Sì, Vittorio è un profeta, precoce e fantomatico. La sua opera di modulatore è tesa verso estensioni sintonizzabili sull’eone maggiore, sulla massima promessa. E potessimo vederci tutti sullo scudo schienadorsoplanstrocarro del LUPICANTO!!! Al lupicanto! Incanto! Puttana miseria, che architettura lupicantica! Ciao tutti tutti tutti
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Gli altri giovedì sono qui.