Sputtanato sono già, sputtanerò anche lui. Lo vedevo all’università nelle usate occasioni accademiche: tesi, consigli… niente di che, un normalissimo docente senza manco quel tocco blasé che traspira da tante mises d’architettura – infatti è urbanista. Solo che conosceva per altre vie Luciano Ragozzino, il socio del Ragazzo, e mi bastò un suo passaggio in ex-gelateria per ricredermi. Lì infatti venne fuori il poeta, e che poeta: “Come sospesa / nel rondò dei giorni / è la pienezza della rosa. // Ciò che manca / – un mondo, un sogno – / si palesa”. Ma non era finita: la volta dopo (complice anche il dolcetto di Ovada) svelò il suo terzo lato: parlava in lingue come il santo spirito, macinava parole col sorriso, caraocava a comando su tutto. Io dissi Turro, Luciano Bresso, e il bitesto era fatto. Dopo che se ne fu andato (zigzagando), il socio mi mostrò Il corruttore di bozze di J.C. d’Avec: era lui. Restava da trovare l’illustrazione. Troppo ghiotta occasione, a un tiro di schioppo da via Padova, così mi accordai con Hans Ebner della Myto Records per registrare i rumori notturni in rive droite de la Martesaine. Si aggiunse tosto Giacomo Spazio del’Air Studio, e siccome una sera avevamo i figli che suonavano coi The Dust alla festa dei licei, decidemmo che da lì a notte fonda saremmo andati in 500 a caccia di rumori. Però accadde una cosa strana. Al bar del Rolling Stone ordinai un negroni, la ragazza preparandolo sorrideva, alla fine non mi fece pagare. Troppa grazia s. Ubicuo! Tempo un quarto d’ora, ero di nuovo in base. Stavolta scambiai anche un paio di battute (tipo: “urta!”, mentre versava il gin), il sorriso divenne riso, la spesa rimase uguale. Insomma, a fine concerto ero ciucco e non ce la facevo a uscire con le mie gambe perché i buttafuori, strappatomi di tasca la tessera d’ingresso, sostenevano che dovevo pagare un tot. Intanto da fuori i due compari, sobrissimi e impazienti, lanciavano grida di sprone. Presi a sbraitare, che non avrei pagato mai e poi mai e poi mai, finché invece del portone sbarrato inforcai una provvidenziale porticina a lato: come in Scarface, stavano pippando coca alla grande. Con un colpo di genio (non ero in me) intimai: “Vi denuncio tutti! vi denuncio tutti!” – mi buttarono fuori di peso, di peso Hans e Giacomo m’infilarono nella 500 e via, verso casa. Dentro l’autovettura c’era la strumentazione, e io spaparanzato avrei costituito un evidente pericolo. Così, raggiunto il porchettaro in fondo a Fulvio Testi, mi depositarono su una seggiola di plastica. Li vidi tornare che già albeggiava, contenti beati come del resto me, che nel frattempo avevo smaltito i negroni a forza di birrette. Ecco perché il libretto minicidìmunito reca in frontespizio “overnoised by Spazio & Ebner”.
Sono di Turro
aborro il burro
chi dice sorry
e fa il buzzurro
chi ti cimurra
e fa lo gnorri.
Amo Turturro
la zeta di Zorro
Violetta Barra
il granciporro
il tuo sussurro
e l’azzurro
del fiore del porro.
Sono di Turro
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Sono di Bresso
mi sfessa l’annesso
e il connesso
il poeta indefesso
la tinca da fosso
il genuflesso
alla barca di Nesso.
Mi rilassa il cipresso
il tasso il lesso il sassofrasso
la pennellessa il Mato Grosso
non mollo l’osso del paradosso
me la spasso come la â
cui è concesso il circonflesso.
Sono di Bresso
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