Gianluca Garrapa: Dove scrivi, quando scrivi, dove cammini quando ti riposi?
Franco Buffoni: Un po’ ovunque, nel senso che avendo due tipi di scrittura, uno in poesia e uno in prosa, quello in prosa mi costringe maggiormente al computer e quindi in due case: io abito a Roma e nello stesso tempo, però, ho ancora una casa di famiglia nella campagna lombarda tra Milano e il Lago Maggiore.
Ho due postazioni di computer fisse identiche che con gli anni sono andato sistemando a mio uso, e dunque, i libri in prosa vengono scritti in queste due postazioni di computer: quella di Roma, in via di Ripetta, che sta proprio al centro del cosiddetto Tridente a duecento metri di Piazza del Popolo. Sono nel silenzio più totale perché c’è isola pedonale e poi quando scendo ho il flusso turistico di Via del Corso.
La scrittura in poesia, invece, ha la grande fortuna di poter uscire in qualsiasi momento: basta il foglietto e la matitina sempre in tasca e quindi, anche quando passeggio, anche quando sono in giro, il verso può fuoriuscire in qualunque momento e a volte sono i versi migliori. A volte l’idea migliore ti viene nella situazione più impensata. Quando sei al supermercato, in coda alla cassa per pagare. O in metropolitana. Per cui io ho sempre una matitina e un foglietto a portata di mano. In una poesia del Profilo del Rosa dico: foglietto a portata di mano una biro per scaricare e prendo il mio appunto, poi è chiaro che vanno tutti rivisti rielaborati. Ma l’importante è fermare quel verso, quell’accoppiamento di versi, quel distico che poi costituisce il vero nucleo della poesia. Non sempre questo avviene, è chiaro, molti vengono scartati, però questo flusso di versi, per me è abbastanza costante. E ho imparato persino a scrivere al buio. A proposito di luoghi: scrivo anche al buio, a letto, perché poi accendere la luce significa svegliarsi e questo è faticoso e doloroso, rimandare al mattino significa magari dimenticare il verso che la notte e il sonno ti avevano portato e dunque ho imparato a scrivere al buio, in un modo particolare, un tipo di taccuino particolare, retto in un certo modo, permette di scrivere al buio, poi ho la possibilità di rileggere al mattino quello che ho scritto, senza interrompere praticamente il sonno senza accendere la luce.
G.G.: Dove cammini quando ti riposi?
F.B.: In due posti ben distinti: quando sono a Roma cammino a Villa Borghese, che ho la fortuna di avere proprio vicino a casa; quindi salgo Villa Borghese dalla scaletta di Piazza del Popolo, poi sono al Pincio e ho tutta Villa Borghese dove camminare appunto quando riposo. Io la chiamo la mia ‘ora d’aria’, perché solitamente lavoro al mattino fino alle due, le tre del pomeriggio, poi faccio una sosta e, appunto, faccio la mia ‘ora d’aria’, una passeggiata, può essere footing, jogging, a seconda, o solo proprio camminare, un riposo della mente, Villa Borghese è molto rilassante; quando invece sono a casa di famiglia, appunto tra Milano e il Lago Maggiore, sono in un comune del parco del Ticino dove iniziano le prime colline moreniche e quindi avviene un po’ la stessa cosa… la casa, soprattutto d’estate, mi piace perché ha il giardino praticamente che entra in casa. Proprio a livello giardino, quindi, ho il profumo della campagna che mi entra in studio e poi faccio delle bellissime passeggiate, appunto, su queste colline moreniche che stanno dietro casa, posso passeggiare per kilometri oppure se esco, invece, dall’altra parte della casa sono nel borgo, dove c’è però una biblioteca, dei negozi frequentabili, un museo che è uno dei primi musei di arte contemporanea italiana: il MAGA che, insieme al MAXXI di Roma, o quello di Rovereto, sono tra i maggiori musei di arte contemporanea che io frequento e coi quali saltuariamente collaboro.
G.G.: In quale città o paese è nato il tuo ultimo libro, in che stanza, in che bar?
F.B.: L’ultimo libro di narrativa s’intitola Il racconto dello sguardo acceso ed è uscito poche settimane fa da Marcos y Marcos, è nato a Roma, per una parte, e in Lombardia, per l’altra parte: nato nel senso di concepito e scritto… poi in questo libro parlo anche di Tunisia, di Svizzera, di Parigi, perché è un libro di docu-fiction, potremmo definirlo, e quindi è un libro dove racconto molto della mia vita con episodi che s’intersecano in quattro decenni di vita adulta tra gli anni ‘70 e gli anni 2000 e dunque non posso dire che ci sia un luogo preciso dove sia nato, dove sia stato scritto, certamente nelle due case, su questo non c’è dubbio. E si basa su una serie di ricordi che non sono posti in ordine cronologico, sono posti in ordine emotivo, ma alla fine, leggendo l’intero libro, credo che emerga chiaramente questo sguardo acceso, il racconto dello sguardo vivace.
Invece l’ultimo libro di poesia è uscito da Donizelli nel settembre del 2015 e s’intitola Avrei fatto la fine di Turing e quello è un libro dove sotto l’etichetta di questo matematico, informatico inglese che si suicidò perché gli era stata praticata la castrazione chimica in quanto omosessuale, includo il ricordo di mio padre perché avrei fatto la fine di Turing se non fossi stato ipocrita, se avessi fatto una specie di coming out tra i sedici e i diciassette anni, mio padre probabilmente mi avrebbe messo in cura dai medici cattolici e avrei fatto la fine di Turing con l’elettroshock… quindi bene vixit qui bene latuit, diceva Cartesio, bene visse colui che si nascose, questa fu la mia adolescenza e, naturalmente, più divento maturo, più questa adolescenza preme nella mia psiche, perché allora non me ne rendevo conto, però era l’unica vita che potessi vivere e la vissi, però oggi mi rendo conto di quanto sia stata determinante per il mio futuro di scrittore e anche la mia necessità di dire, e di denunciare oggi quella scelta lì.
G.G.: Sei mancino o destrorso?
F.B.: Sono destrorso, assolutamente, anche quando giocavo a tennis, ho provato ad essere ambidestro perché a tennis è un po’ comodo, ma ci sono riuscito poco. Comunque i mancini sono quotati al 15 per cento, gli omosessuali sono quotati tra il 5 e il dieci per cento… i mancini han subito persecuzioni sempre da parte delle autorità costituite, che naturalmente tra noi italiani erano soprattutto autorizzati dal mondo ecclesiastico, con maestri fascisti abituati a correggere o a comprimere questo ‘difetto’, perché la mano sinistra è la mano del diavolo. Anche qui l’ignoranza, per quanto riguarda il mancino, è stata sconfitta, e per l’omosessualità ci stiamo attrezzando,
G.G.: Passeggi? in bici, in auto, osservi alberi?
F.B.: La passeggiate che ti ho descritto le faccio a piedi, e solitamente a piedi perché ho la fortuna di avere i luoghi che partono proprio dietro casa, Villa Borghese ce l’ho qui vicino a Roma, e le moreniche, che ti dicevo, sono proprio dietro casa mia quando sono in Lombardia. A Roma non ho l’automobile anche perché abitando al centro non è possibile tenerla e l’ultima volta che ho guidato a Roma è stato trent’anni fa, mentre ho ancora un’automobile, un’utilitaria, un mezzo per andare al supermercato, quando sono in Lombardia, e allora la uso per fare escursioni nel tratto del Parco del Ticino, perché è molto grande posso andare fino in Svizzera, fare il Lago Maggiore, Lugano, Locarno, ecco quindi, sì, uso la macchina. Poi, per lavoro, mi capita spesso di usare il treno, per spostarmi tra Milano e Roma, con l’alta velocità e spesso sono in giro. Da giovane usavo sempre l’automobile. E da giovane ho fatto un dottorato in Scozia, andavo a Edimburgo in macchina, perché mi piaceva avere la macchina, allora la macchina per me era tutto, era la biblioteca, la camera da letto, facevo viaggi lunghissimi e la macchina era la mia seconda casa come una chiocciola, una lumaca, adoravo avere la macchina a disposizione,
G.G.: Scruti cornicioni, affondi lo sguardo nel cielo, segui le onde del suono e dell’acqua? quali sono i rumori della città e quali i silenzi delle vaste campagne?
F.B.: A Roma, siccome sto al quarto piano, vedo i cornicioni, in particolare vedo il campanile di Via di Ripetta, e i cornicioni delle case interne che sono tranquillissime, vedo dei giardini pensili, ammiro il cielo: a Roma mi piace molto guardare il cielo che prende coloriture diverse a seconda delle ore del giorno, alla sera verso il tramonto prende il riflesso dei marmi di Roma, e quindi questo cielo diventa cobalto, e poi c’è quel momento in cui il rosa e l’azzurro si fondono, e il cielo di Roma diventa veramente uno spettacolo. Mentre, quando sono in Lombardia, io ho il profilo del Rosa, che è la mia montagna (ho intitolato Il profilo del Rosa anche un libro di poesia uscito per Lo Specchio nel 2000), con le quattro cime fondamentali del Monte Rosa, e segmentato il profilo del Rosa è per me è la visione dell’anima, è la libertà, la natura, che mi si è impressa nella mente fin da bambino ed è rimasta fortemente salda nella mia memoria, la mia memoria profonda è nella brughiera del parco del Ticino al ciglio del Monte Rosa.
G.G.: Fumi?
F.B.: Ho fumato nella mia vita dall’adolescenza sino ai 50 anni, non moltissimo, però ho fumato abbastanza per farmi venire il cancro al polmone che mi venne nel 2001, e venni fortunatamente operato subito e questo mi salvò la vita, della specie peggiore. Me lo tolsero nel novembre del 2001, mi tolsero il lobo inferiore del polmone sinistro, e fortunatamente il male non aveva fatto in tempo ad espandersi e quindi sono qui ancora a raccontare,
G.G.: Bevi?
F.B.: Molto con moderazione, ho smesso di fumare quindici anni fa e per quanto riguarda l’alcool non ho mai avuto problemi nel senso che appartengo ancora a una generazione per cui il padre, al bambino di quattro anni, sporcava di rosso l’acqua a tavola, l’acquerino, come faceva con le mie sorelle, per cui siamo tutti cresciuti a acqua e vino: per noi l’alcool non era assolutamente niente di peccaminoso, forse è questa la ragione per cui io non mi sono mai ubriacato in vita mia, e quando per la prima volta capitai in un college inglese, non capivo perché il venerdì e il sabato sera ci si dovesse ubriacare, una cosa che assolutamente sfuggiva a ogni logica… forse perché appunto io, se volevo un goccio di martini, o di vino, lo potevo avere anche nell’adolescenza, bastava allungare la mano perché liquori a casa mia erano sempre a portata di mano, non ne ho mai approfittato perché non ce n’era ragione, erano lì, e quindi non avendo avuto il proibizionismo… il proibizionismo lo avevo in altri ambiti, diciamo, ma su quello dell’alcool no, e quindi ho un rapporto assolutamente sereno, bevo il mio bicchiere di vino alla sera, mai più di mezzo bicchiere, e a volte magari un goccino di cognac o di whiskey, ma proprio in misura minimale, ecco, alla sera quando magari vedo un film, o ascolto della musica… insomma, non ho il problema dell’alcool, assolutamente. Ho solo il godimento, perché poi in piccole quantità ti dà solo piacere.
G.G.: Quanto pesi?
F.B.: Sono alto 1.88 e il mio peso forma è sugli 80 chili, da giovane fino ai trent’anni pesavo sui 70-72 chili, quindi ero molto snello. Poi dopo con l’età più matura il peso si è assestato sugli 80 chili. Sia la glicemia che il colesterolo sono a posto!
G.G.: Scrivi dopo cena, prima di pranzo? quando?
F.B.: Ho scritto molto la sera, da giovane, anche perché da giovane, fino agli anni che ho tenuto cattedra all’università, di giorno ero sempre impegnato con gli studenti, e quindi la mia scrittura era sempre una scrittura pomeridiana e serale, tranne nei periodi di vacanze in cui scrivevo anche di mattina. Adesso che sono in pensione, ho 68 anni, la concentrazione per la scrittura è sempre al mattino, poi dopo, appunto, quell’ora d’aria.
Faccio un breakfast al mattino, molto inglese, quindi poi non faccio pranzo, di solito, e pertanto, dopo la passeggiata, rientro e comincio ad avere voglia di cena anticipata: se sono da solo anticipo l’orario della cena, e poi dopo posso correggere delle bozze, stare sui social, vedere un film, leggere libri, però non faccio più cose di scrittura, mentre nei primi decenni della mia vita adulta la concentrazione era soprattutto notturna e serale.
G.G.: La tua è scrittura di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo?
F.B.: Anche qui bisogna distinguere tra scrittura poetica e narrativa, sono due cose molto diverse, c’è un mio amico critico dell’università di Siena, Guido Mazzoni, che mi ha detto, che quando scrivo narrativa, la docu-fiction di cui parlavo prima, scrivo con intento illuministico, col desiderio di correggere e di consigliare, e dare speranza, perfettibilità al mondo e all’umanità, quindi mi vede crocerossino e portato al mutamento, alla socialdemocrazia, e quindi, dice, quando scrivi narrativa “ti poni in dialogo con la realtà in modo politico e costruttivo, invece quando scrivi in poesia, scrivi per il futuro, per i posteri, e scrivi la verità e quindi hai un pessimismo cosmico molto denso, molto percepibile”, e in questa differenza, penso che Mazzoni, che è un critico acutissimo oltre che un bravo poeta, abbia ragione, nel senso che è vero: il mio intendimento, quando scrivo narrativa, è un intendimento di dialogo con la contemporaneità e quindi c’è sempre un impegno illuministico da parte mia. Mentre invece quando scrivo poesia, tranne in qualche caso, perché ci sono pure poesie anche con anche questa impostazione, il messaggio di fondo che ne trai è un’analisi della natura umana telle qu’elle est, quale essa è, e quindi piuttosto pessimistica, anche se credo nei valori fondamentali nella carta dei diritti dell’uomo, credo nell’istituto del perdono, per cui cerco di trarre dal Cristianesimo, dall’Illuminismo le istanze migliori per sperare, però questo mi salta fuori di più in narrativa che in poesia, certo.. se uno legge un libro come Guerra, uscito per Specchio nel 2005, effettivamente vede un quadro della natura umana piuttosto pessimistico…