I sassi è un libro di Giulio Marzaioli edito da Tic nel 2021 ed è «il dodicesimo volume della Seconda serie della collana ChapBooks, diretta da Michele Zaffarano […] Gherardo Bortolotti e Massimiliano Manganelli». La copertina è di Enrico Pantani. Si legge in un fiato e a lungo, però, fa riflettere sulle potenzialità di una lingua neutra che non risulti però indifferente alla lettura e all’ascolto. I sassi ci portano nel mondo inorganico dello sguardo disincarnato. Ma non v’è freddezza oggettiva e priva di corpo. Anzi. C’è ironia nell’immaginarsi sassi che non possono scrivere, a esempio. E non possono leggere tantomeno quello che di loro Marzaioli ha scritto. Il primo riferimento che mi viene in mente è Il partito preso delle cose del francese Francis Ponge. Ma c’è anche l’idea, credo, dell’oggetto che diventa cosa, causa di linguaggio, di derivazione lacaniana. Una certa ingenuità calcolata ci restituisce la tenerezza di uno sguardo infantile. E nella scrittura come nell’arte, pensiamo alla massima di Picasso riguardo la difficoltà per l’artista adulto di mantenere lo sguardo di un bambino, sostenere uno sguardo scevro dalle dicerie dell’io, è operazione alquanto complicata. Il libro si compone di brevi prose che ci regalano uno sguardo d’insieme su quella che se storia è, è storia antropogeologica, per smottamenti, accade per traumi rivelatori, senza scadere nell’ormai retorica antropocenica. Si gioca, ironicamente, su due versanti: quello del luogo comune che smette di esserlo quando, come un oggetto à la Duchamp, viene smontato e ricollocato in un contesto altro. Le frasi, in questo libro, sono proprio oggetti che nel presentarsi per quello che sono, privi di metafore e di altrove di senso, sono capaci di straniarci comunque pur asserendo l’ovvio. Automatica è la postura dello scrivere che ci svuota, come in un esercizio zen, dall’illusione di essere noi, esseri umani, il centro della narrazione cosmica. E qui il secondo aspetto dell’ironia, che pone il sasso in un’ottica non feticistica, né animistica, ma in una visione olistica, collegata: il sasso come quantum d’informazione in una rete di significanti. Immedesimarsi nella cosa che vediamo è un buon modo per evitare la parziale e dittatoriale visione dell’io limitante. I sassi hanno una loro intelligenza, letto il libro si ha una certa difficoltà a pensare al ‘sei duro come un sasso’, i sassi hanno una loro sensibilità e una saggezza nascosta cui non possiamo più essere indifferenti dopo aver letto I sassi.
Gianluca Garrapa
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Come nasce I sassi?
Alcuni sassi erano già presenti tra le pagine di un mio precedente libro (Il volo degli uccelli, edito da Benway Series). La comparsa di quei sassi credo si possa ricondurre ad una sorta di progressiva mineralizzazione della mia indole, che nel corso del tempo è andata levigandosi e concentrandosi verso una maggiore essenzialità. Più che durezza, mi piace pensare che si tratti di una raggiuta densità e, allo stesso tempo, semplificazione. I sassi, i primi sassi cui faccio riferimento, sono sassi di montagna, spesso e volentieri osservati e raccolti in occasione di sempre più frequenti soggiorni ad alta quota. Una volta sistemati i sassi nel libro sopra citato, è emersa una carenza di attenzione: i sassi pretendevano, e a ragione, uno spazio più ampio entro cui collocarsi e fare mostra di sé.
«È nell’indole del sasso riflettere i raggi del sole estivo, guardare dal basso la caduta delle foglie, tacere sotto la neve e farsi lambire dai fili d’erba al risveglio di primavera.» Che rapporto c’è tra la tua scrittura, in particolare quella de I sassi, e la fotografia?
Nel mio percorso ho sempre considerato la scrittura come linguaggio originario. Talvolta, però, è mancata o manca la combinazione di parole che possa portare avanti il discorso. In altri casi il discorso (per discorso intendo logos, l’ideazione e la realizzazione di un progetto o di una linea creativa) si completa con il ricorso ad una diversa espressione artistica, quali, per l’appunto, la fotografia, il video etc.. In particolare, la fotografia rappresenta allo stesso tempo una sfida e un mezzo di comprensione. La sfida è nei confronti di una tecnica che vede molto limitate le mie capacità e tuttavia nella quale, in varie fasi, ho potuto sperimentare una precisa “visione” della resa finale, della forma-immagine. E attraverso tale sperimentazione si gioca il secondo elemento di interesse, dal momento che nel dover trarre spunti di riflessione da un linguaggio diverso rispetto alla scrittura, il ritorno ad essa inevitabilmente si arricchisce di ulteriori stimoli.
«I sassi non sanno scrivere. E non potranno mai leggere cosa scriviamo di loro.» In che modo l’ironia e la comicità entrano nel mondo della tua scrittura?
Della comicità non saprei dire (per dirla, tra gli altri, con Eduardo, la comicità è una cosa seria). Per quanto riguarda l’ironia, questo è un aspetto che negli ultimi anni che è stato messo in risalto in più occasioni: dovrò prenderne atto ed ammettere la sua presenza. Non essendo tuttavia un processo intenzionale quello dell’immissione di ironia nel testo, probabilmente essa deriva dalla de-localizzazione dell’oggetto, che assume diverso valore nel momento in cui viene posto sotto osservazione, e dalla riduzione di grado del soggetto umano nell’ambito del contesto rappresentativo. Tali dinamiche, peraltro proprie anche dell’azione clownesca, hanno a che fare con una esigenza etica, o, più precisamente ecologica.
«Comprendere il linguaggio dei sassi. Imparare ad ascoltarli.» Che musica ascolti? Credi che ci sia qualche legame tra l’ascolto e la scrittura?
Sarebbe facile rispondere che ascolto tutta la musica. Se però vogliamo intendere, al di là delle preferenze personali, se e come la musica possa determinare una modalità di scrittura, posso citare due esempi che chiariscono quale tipologia di legame può innescarsi tra i due linguaggi. Da ragazzo ho suonato per qualche anno la batteria jazz, studiando con un ottimo batterista (e liutaio) e chiudendomi in sala in terzetti e quartetti improvvisati. È inevitabile che quell’esperienza abbia improntato una accentuata ricerca e attenzione ritmica nella produzione della scrittura. Su altro fronte, una certa tendenza alla ricorsività, soprattutto all’interno di alcune opere di qualche anno addietro (penso alle Quattro Fasi, ad esempio), è scaturita dalla frequentazione della musica minimalista, che per qualche tempo ha costituito una importante fonte di ispirazione. Venendo all’importanza dell’ascolto, non è possibile scrivere senza ascoltare e aver ascoltato. Per ascolto intendo la predisposizione al confronto, alla relazione con altro da sé, e questo riguarda la musica così come la scrittura altrui, altre forme d’arte etc..
In versi e in prosa: che differenza di approccio hai rispetto a queste due cose?
Nei primi anni in cui ho iniziato a pubblicare, la scrittura in prosa era esclusivamente dedicata a testi ideati per il teatro (confluiti poi in volume dal titolo Appunti del non vero, edito da Zona Editrice). Negli ultimi anni, invece, la prosa ha gradualmente soppiantato la scrittura in versi, probabilmente perché è la forma che meglio si adatta alla formulazione delle attuali suggestioni o necessità di scrittura. Se e quando dovesse configurarsi una forma breve quale miglior mezzo di trasmissione, non avrei difficoltà a tornare ad essa, tuttavia credo che sia corretto distinguere tra le due tipologia di scrittura. È strana la difficoltà a definire una scrittura che non sia propriamente narrativa, soprattutto se praticata da un autore che ha scritto in versi. Si ricorre ad assimilazioni con la poesia o si coniano nuove categorie, laddove esiste un termine, prosa, che, pur nella sua genericità, basta e avanza a far comprendere di quale scrittura si tratti. Direi che negli ultimi 6, 7 anni sono diventato un autore di prosa, con licenza di cambiare verso.