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Il cavallo. Intervista a Willy Vlautin

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Dopo circa tre anni, è tornato da poco nelle librerie italiane con il nuovo, struggente “Il Cavallo” (Jimenez Edizioni, pg 192, € 18. Traduttore: Gianluca Testani – che sentitamente ringrazio). E dopo un lustro abbondante passato a scambiarci saltuarie mail riguardanti i main events pugilistici internazionali degli ultimi tempi (una comune passione, questa, scoperta tempo addietro quando, sempre per Satisfiction, ebbi la straordinaria fortuna di intervistarlo di persona poco dopo l’uscita di “The Free” e di passare un lungo pomeriggio con lui a Roma, nella casa dell’ex ufficio stampa di Jimenez Edizioni), non ho resistito alla tentazione di tornare a fare quattro chiacchiere (ahimè, questa volta solo telematiche) con Willy Vlautin, che, per scrive, è una delle voci più potenti e indimenticabili della nuova letteratura americana.

Ecco che cosa mi, ci ha raccontato questa volta.

Domenico Paris

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Al Ward è il tuo ennesimo, riuscitissimo antieroe. Ce lo puoi presentare?

Il romanzo segue la vicenda umana di Al Ward, un musicista che ha suonato la chitarra nei bar, nei casinò e nei club dall’età di 16 anni fino a poco più di 60. È un tipo un po’ ammaccato dall’esistenza e in lotta contro l’alcolismo, ma che non rinuncia ad essere un cantautore per tutta la vita continuando a scrivere la sua musica indipendentemente dal successo o dalla mancanza di esso.

Come tutti i tuoi lettori sanno, le sette note sono il tuo primo amore. Come mai ti sei deciso soltanto adesso a concedergli un ruolo centrale in tuo romanzo?

Semplicemente non mi è mai interessato scrivere di musica, né leggere romanzi sull’argomento. Adoro le biografie dei musicisti, ma i romanzi sui musicisti mi sono sempre sembrati falsi. Forse questo, fino ad ora, mi aveva spaventato. In questi ultimi anni però mi sono interessato al motivo per cui una persona continui a fare arte anche quando agli altri non interessa. Perché la maggior parte dei musicisti con cui sono cresciuto suona ancora quando solo pochi di loro si guadagnano da vivere facendolo? Ecco, volevo sapere perché una persona continua a perseverare in questo senso.

Sempre rimanendo in tema: per rendere una canzone perfetta possono essere necessari mesi, anni di revisione e di arrangiamenti. Funziona così anche per la narrativa? Che differenze riscontri tra la scrittura e la revisione di una canzone e quelle di un libro?

Alcuni dei miei brani migliori li ho scritti in un giorno o due. Forse qualche ora un giorno e poi qualche ora il giorno dopo per rivederlo. Una canzone è più simile a una poesia: se ti dà i brividi, ci lavori sopra venti minuti qui, venti minuti là, non ha la capacità di consumarti che ha un romanzo. Un romanzo richiede anni di duro lavoro, di costruzione e ricostruzione. Una canzone è come disegnare una casa, un romanzo è come costruirla davvero. Li amo entrambi. Amo il mistero di una canzone, da dove viene quella melodia e perché? Ma è il duro lavoro che si cela dietro un romanzo la cosa preferisco. Adoro armeggiare giorno dopo giorno sulle frasi.

Quando lessi il tuo “Verso Nord”, la prima cosa che pensai fu che finalmente la grande tradizione della short story statunitense aveva trovato una nuova voce. Tornerai a cimentarti con i racconti? E cosa cambia nella tua narrativa quando passi dalla lunga alla corta distanza?

Non ho mai avuto molta fiducia nei miei racconti. È un genere narrativo, una forma narrativa, così diversa dal romanzo che è difficile da sviluppare bene. E forse influisce anche il fatto che io scrivo i miei “racconti” nelle mie canzoni. Se ho una sola idea-guida, di solito diventa una canzone e non una short story. Immagino anche di essere semplicemente innamorato del romanzo. È la mia forma d’arte preferita. Mi piacciono i racconti brevi ma non nello stesso modo in cui amo il romanzo, quindi, semplicemente, quando mi esprimo in narrativa, “inseguo” sempre il romanzo.

Torniamo al tuo ultimo lavoro: so che non è facile, ma vorrei che mi provassi a spiegare da dove nasce l’idea di questo cavallo che dà il titolo all’opera e, soprattutto, che cosa rappresenta per te?

Io e un amico eravamo nel Nevada centrale, a circa trenta miglia dalla strada asfaltata più vicina, e arrivammo in una grande playa deserta, che si estendeva a perdita d’occhio. Non c’erano acqua né alberi, nient’altro che sabbia e terra. È stato lì che abbiamo visto quella che sembrava la statua di un cavallo nero. Ci siamo fermati e ci siamo avvicinati per constatare con i nostri occhi che era effettivamente un cavallo selvaggio e che era cieco. Fu la cosa più triste che avessi mai visto fino a quel momento. Essere soli e ciechi nel deserto, senza acqua né ombra, è straziante oltre ogni dire. Quel cavallo mi è rimasto impresso per anni, è un’immagine dalla quale non potrei mai sfuggire.

Quello che penso di aver detto nel romanzo è che a volte l’unico modo per aiutare se stessi a non annegare è aiutare qualcun altro che sta a sua volta annegando. Questo era il mio proponimento principale quando ho cominciato a scriverlo. Ma l’ho fatto anche per me, perché, almeno in qualche “mondo ideale”, ho salvato quel cavallo.

I demoni interiori di Al Ward sembrano essere quelli di una brava persona che, pur non essendo riuscito a procurarsi un posto al sole, trova dentro di sé la forza di continuare a lottare per la sua dignità, se non per la sua salvezza. Quante persone così ci sono ancora nel mondo? E che tipo di resistenza al destino volevi suggerire con questo personaggio?

Penso che tutti, a modo nostro, nella vita proviamo a trovare un posto al sole, cerchiamo di mantenere la dignità e di procurarci una “salvezza” personale. È una lotta comune ad ogni individuo e a tutti gli esseri viventi tocca in sorte, prima o poi, qualcosa di brutto. Tutti abbiamo delle difficoltà e viviamo un nostro inferno interiore, avendo anche la consapevolezza che un giorno, inevitabilmente, dovremo morire. Questo di per sé è difficile da comprendere, da accettare, e quindi non è per niente facile trovare il modo di “rimanere a galla”. Penso che Al sia un bel po’ ammaccato da quello che ha passato e un po’ troppo sensibile per questo mondo. E che paghi un prezzo salato per questo suo modo di essere.

Una curiosità: nelle pagine di “Il Cavallo” sono presenti i titoli di centinaia di canzoni scritte dal protagonista. Tra di loro, ce n’è qualcuna che Willy Vlautin ha scritto davvero?

Ha ha, sì, ne ho effettivamente scritte una manciata. E spero in futuro di scriverne di più. La cosa più divertente nel corso della stesura di questo libro è stato ideare i titoli delle canzoni, i frammenti dei loro testi e, naturalmente, dare il nome alle band con le quali il protagonista suona spesso nei casinò.

La tua descrizione della vita on the road di un musicista e di una band è estremamente diversa da quella che la maggior parte delle persone immagina. Quanto hai attinto dalle tue esperienze con i Richmond Fontaines e con i Delines per descriverla? Cosa ami e cosa odi quando vai in tour (a proposito: ma in Italia quando ti vedremo?)?

Nel corso della mia carriera di musicista, ho solo fatto visita a delle persone che si spostavano sui tour bus, ma non ci ho mai dormito, né tantomeno ne ho guidati. Nessuna band di cui abbia mai fatto parte ha mai avuto qualcuno che ci aiutasse a spostare le attrezzature. Adesso siamo diventati abbastanza popolari da avere un tecnico del suono. Quindi il materiale relativo al viaggio nel romanzo è tutto basato sulle mie esperienze personali. E devo dire che adoro far parte di una band, perciò non è stato così difficile descriverne la vita on the road. Forse diventa spaventoso quando il tuo furgone è sovraccarico o troppo vecchio o ha le gomme sono usurate. Ma, a parte questi inconvenienti, ho sempre pensato che fosse più facile essere in un gruppo che lavorare. Almeno nel tipo di lavori che ho fatto io, oltre al musicista e allo scrittore.

Nella nostra prima intervista di qualche anno fa, abbiamo scoperto la nostra comune passione per la boxe che fa capolino anche in questo romanzo, quando Al Ward compone una canzone dedicata al grande pugile messicano Salvador Sanchez (indimenticabile campione dei pesi piuma dei primi anni Ottanta del secolo scorso, deceduto in un tragico incidente a soli 23 anni e considerato uno dei migliori boxeur dell’ultimo mezzo secolo, ndr). Come mai hai voluto omaggiare proprio lui?

Ah, sono contento che ti sia saltato all’occhio! Volevo solo conoscerlo meglio come pugile e, mentre scrivevo dei fratelli Sanchez (due personaggi contenuti all’interno de “Il Cavallo”, ndr), mi sono ricordato di lui e ho pensato: “Posso inserirlo nel libro!”. E l’ho fatto.

Pur essendo due scrittori molto diversi, alcuni passi di “Il Cavallo”, per la loro brutale e lirica espressività, mi hanno fatto pensare a Cormac McCarthy. È un paragone che pensi sia possibile fare? Apprezzi il suo modo di scrivere?

Cormac McCarthy è stato un vero maestro, uno scrittore leggendario di quelli che potremmo considerare dei “western moderni”. Lo ammiro moltissimo. Non penso di avere la padronanza del linguaggio che ha lui. Penso di essere un po’ più peculiare in ciò di cui mi piace scrivere, ma ogni paragone con lui penso sia un grande onore.

Chiuderei questa nostra chiacchierata chiedendoti di consigliare a nei lettori italiani un autore americano (o più di uno) che, secondo te, non ha ancora avuto il giusto riconoscimento.

Oh, uno dei miei libri preferiti è “Manual for Cleaning Women” di Lucia Berlin (tradotto in italiano con il titolo “La donna che scriveva racconti” e pubblicato nel 2016 da Bollati Boringhieri con la traduzione di Federica Aceto, ndr). Le sue storie sono bellissime. Tu prima hai parlato di dignità e, beh, le sue riguardano tutte il tentativo di mantenere la propria dignità sotto gravi pressioni.

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After about three years, he recently returned to Italian bookstores with the new, poignant “Il Cavallo” (Jimenez Edizioni, pg 192, €18. Translator: Gianluca Testani – whom I sincerely thank). And after a good five years spent exchanging occasional emails regarding the main international boxing events of recent times (a common passion, this, discovered some time ago when, again for Satisfiction, I had the extraordinary fortune of interviewing him in person shortly after the release of ” The Free” and to spend a long afternoon with him in Rome, in the house of the former Jimenez Edizioni press office), I couldn’t resist the temptation to go back and have a chat (alas, this time only electronically) with Willy Vlautin, who , by my side, is one of the most powerful and unforgettable voices of new American literature.

Here’s what he told us this time.

Al Ward is your umpteenth, highly successful anti-hero. Can you introduce him to us?

The novel follows the life of Al Ward, a musician who has played guitar in bars, casinos, and clubs from age 16 until his early 60’s. He’s a bit beat up and struggles with alcoholism, but he’s a lifelong songwriter who continues to write regardless of success or lack thereof.

As all your readers know, music was your first love. Why did you only now decide to give to it a central role in your novel?

I was just never interested in writing about music, nor reading novels about it. I love biographies of musicians but novels about musicians always seemed false. Maybe that scared me away. But over the last few years I became interested in why a person continues to do art even when there’s no demand for it. Why do most of the musicians I grew up with still play when only a few make even a meager living at it? I was interested in why a person does art.

Still staying on topic: to make a song perfect it can take months or years of revision and arrangements. Does it work like this for fiction too? What differences do you find between writing and revising a song and a book?

Some of my best tunes I wrote in a day or two. Maybe a few hours one day and then a few hours a day later revising. A song is more like a poem. If a song gives you fits you work on it for twenty minutes here, twenty minutes there. It’s not all consuming like a novel. A novel takes years of grunt work, of building and rebuilding. A song is like drawing a picture of house, a novel is actually building the house. I love them both. I love the mystery of a song, where does that melody come from and why? But it’s the hard work of a novel I love the best. I love the day in and day out of tinkering on sentences.

When I read your “Northline,” the first thing I thought was that the great tradition of the American short story had finally found a new voice. Will you go back trying your hand at short stories? And what changes in your narrative when you move from long to short distance?

I’ve never had a lot of confidence in my short stories. It’s such a different form that is difficult to get right. And maybe it’s that I write my short stories into songs. If I have a single idea it usually becomes a song not a short story. I guess also I’m just in love with the novel. It’s my favorite art form. I like short stories but not in the way I love the novel, so I just chase the novel.

Let’s go back to your latest work: I know it’s not easy, but I would like you to try to explain where the idea of ​​this horse that gives the work its title came from and, above all, what does it represents for you?

A friend and I were out in central Nevada, maybe thirty miles from the nearest paved road and we came to a large desert playa. It went on for miles and miles. There was no water or trees, nothing but sand and dirt. It was there that we saw what looked like the statue of a black horse. We pulled over and walked to it to see it was a wild horse that was blind. It was the saddest thing I’d ever seen. To be alone and blind in the desert with no water or shade is heartbreaking beyond words. That horse stuck with me for years, it’s an image that I could never escape.

What I think I was saying in the novel was that sometimes the only way to help yourself from drowning is to help someone else who is drowning. That was the main point. But also for me, at least in some world, I saved that horse.

Al Ward’s inner demons seem to be those of a good person who, despite having failed to find a place in the sun, finds within himself the strength to keep fighting for his dignity, if not for his salvation. How many people like him are there still in the world? And what kind of resistance to fate did you want to suggest with this character?

I think all of us try in our own way to find a place in the sun, try to have dignity and salvation. It’s a struggle for everyone and everyone alive is dealt some sort of bad hand. We all have struggles and hell, we all know we’re going to die. That in itself is hard to wrap your head around and stay afloat. I think Al is just a bit beat up and a bit too sensitive for this world. And he pays a real price for that sensitivity.

A curiosity: in the pages of “The Horse” there are the titles of hundreds of songs written by the main character. Among them, are there any that Willy Vlautin really wrote?

HA HA, I’ve written a handful of them. I hope to write more. The most fun I had working on the book was coming up with the titles, the snippets of lyrics, and of course the casino bands.

Your description of life on the road as a musician and a band is extremely different from what most people imagine. How much did you draw on your experiences with the Richmond Fontaines and the Delines to describe it? What do you love and what do you hate when you are on tour (by the way: when will we see you in Italy again?)?

You know I’ve only visited people on tour buses, I’ve never slept on one or driven in one. No band I’ve ever been in has ever had someone help us move gear. We’ve just now gotten popular enough to have a soundman. So the road stuff in the novel is all based on my experiences. And I have to say I love being in a band so none it was that hard. Maybe scary when your van is overloaded or the van is old or the tires are thin. But that aside I’ve always thought it was easier than working. At least in the kind of jobs I’ve had.

In our first interview a few years ago, we discovered our common passion for boxing, which also appears in this novel, when Al Ward composes a song dedicated to the great Mexican boxer Salvador Sanchez. Why did you want to pay homage to him?

Ha, you caught that! I just wanted to acknowledge him as a boxer and while writing about the Sanchez Brothers I remembered Salvador Sanchez and I thought, I can put him in the book!

Despite being two very different writers, some passages in “The Horse”, due to their brutal and lyrical expressiveness, made me think of Cormac McCarthy. Is this a comparison you think is possible to make? Do you appreciate his way of writing?

Cormac McCarthy was a true master, a legendary writer of modern westerns. I admire him greatly. I don’t think I have a command of language that he has. I think I’m a bit more particular in what I like to write about, but any comparison to him I think is a great honor.

I would close our chat by asking to you to recommend to Italian readers an American author (or more than one) who, in your opinion, has not yet received the right recognition.

Oh one of my favorite books is Manual for Cleaning Women by Lucia Berlin. Her stories are brilliant. You mentioned dignity early and her stories are all about trying to keep ones dignity under serious duress.

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