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Il circolo degli ex. Intervista a Massimo Vitali

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A giugno 2022 Sperling & Kupfer ha fatto uscire Il circolo degli ex (pagg. 377, €16,90), il nuovo romanzo di Massimo Vitali. È una commedia ironica che parla, come molta della produzione letteraria di questo narratore bolognese, di relazioni affettive “intorcinate”.

Nel suo quarto titolo, il secondo per Sperling&Kupfer, Vitali racconta del come finisce un amore e di come esso si possa trasformare in una ossessione perniciosa, se non intercorressero a un certo punto alcuni eventi capaci di liberare la mente, di lasciarla andare verso, diciamo, nuovi orizzonti.

La via di uscita è sì il classico chiodo scaccia chiodo, ma data non in modo così lineare, altrimenti il romanzo non avrebbe motivo di esistere.

Come la vita di chi è innamorato, in realtà.

Così accade a Pietro nel turbolento transitare da Ginevra (la sua ex) a Ginevra (suo nuovo legame), da carattere a carattere.

Nel mezzo, ecco l’ideazione di un self aid che pare funzionare anche per altri: un Circolo di lover addicted, preso pari pari come formula dai Circoli per alcoolisti anonimi.

È qui che si raccoglia una armata Brancaleone di tipi e di situazioni che pare una casistica corposa (ma sempre parziale, sia chiaro) di come possono andare a finire le storie fra una lei e un lui, e di come se ne possa uscire, con un piccolo aiuto da parte degli amici o dei sodali.

Per chiedere conto di alcune cosucce che fanno muovere le pagine de Il circolo degli ex, abbiamo rincorso l’autore fra i suoi mille impegni di docente, conferenziere, relatore e altro ancora. E lui, con la gentilezza che lo contraddistingue, ha contraccambiato e pazientato. Alla fine ce l’abbiamo fatta e ci siamo seduti davanti a un registratore.

Sergio Rotino

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Ce l’abbiamo fatta, pare.

Che non è proprio facile, vista la vita che si conduce.

Piena di impegni…

Dislocati per tutta Italia.

Ma ci siamo e direi di iniziare a parlare di quanto trova spazio nel tuo Il circolo degli ex.

Vai.

A cosa si deve questa tua attenzione all’argomento sentimentale?

Perché penso che, oltre alla vita stessa, al nostro essere vivi, respirare, camminare e via così, una delle cose più importanti del mondo sia, appunto, l’amore. Intendiamoci, non non solo visto come questioni di cuore, ma proprio come sentimento, come voler bene a qualcuno, come star bene non da soli. Ecco.

Anche di quelle persone che non rientrano in questa casistica?

D’accordo, ci sono persone che stanno bene anche da sole. Ci sono anche persone che, avendo avuto brutte esperienze, preferiscono la solitudine. E ce ne sono altre ancora che hanno piacere di condividere la propria vita con qualcuno con cui ci si può capire, ma restando ognuno indipendente: due case, due automobili ecc. Credo però siano una minoranza. Da rispettare, senza dubbio. Però, in confronto a tutti quelli che vogliono bene a qualcuno che non sia se stessi, sono pochi, direi.

Quindi i tuoi personaggi non hanno paura della solitudine?

No, in loro non c’è nessuna paura della solitudine. Però, a pensarci… Se devo darti una risposta onesta, allora devo dirti che non lo so.

Mentre leggevo Il circolo degli ex mi è venuto da pensare che il sentimento amoroso, per come lo racconti qui, pare un prodotto discretamente intossicante per i protagonisti. È un pensiero un po’ brutale, ma a tuo avviso ha un fondo di verità?

Non mi piace la definizione di “tossico” o di “tossicità”. L’ho già sentita, ma non mi torna. Più che altro parlarei di “dipendenza”. Ecco, il sentimento amoroso è una dipendenza. E tutte le dipendenze fanno male.

Come ti è venuta l’idea di scrivere un romanzo su una “dipendenza sentimentale”, che poi è anche l’unica?

Parti dal fatto che è il mio primo romanzo a nascere anche grazie a Istagram. Avevo l’idea, ma prima di iniziare a scrivere ho invitato chi mi seguiva attraverso la mia pagina social a inviarmi le proprie storie di amore, quelle finite. Ne ho ricevute un centinaio e una minima parte è finita nel libro.

Quindi?

Quel che voglio dire è che il libro è molto rubato dalle persone. Rubo come tutti gli scrittori, chiaro. Ma nelle pagine del mio romanzo ci sono molte cose vere, accadute realmente. Io ho fatto in modo che accadessero ai protagonisti. Poi aggiungo che, a prescindere dal genere letterario in cui si può inserire, Il circolo degli ex è un romanzo profondo, anche serio, ma a modo mio.

E se ti dicessi che in alcuni passaggi sembra quasi tu voglia riscrivere le regole del grande romanzo rosa?

Guarda, posso rispondere dicendoti che una delle cose che non mi fa affatto piacere è che in varie librerie inseriscano Il circolo degli ex nel settore dei romanzi rosa.

Tendono a fare la cosa più facile.

Ma a me dispiace. Quello che mi dicono i lettori è, semmai, una vicinanza con Nick Hornby. Comunque ho parlato a modo mio di un altro aspetto dell’amore.

È una storia con molti personaggi, con tante realtà, che prima di tutto è volutamente una commedia?

Certo. È una caspita di commedia: una commedia del reale. Anche Se son rose poteva essere definita tale. Alla Totò, diciamo. Però sempre commedia.

Che non è quella proposta ne Il circolo degli ex?
Non può esserlo perché Se son rose giocava con il surreale. In questo mio ultimo lavoro, il surreale è cancellato. Quanto leggi nel romanzo, viene direttamente e completamente dalla realtà.

Potrei dire anzi che è pura realtà, se non fosse un’opera di finzione con una documentazione forte di quanto avviene nel quotidiano delle persone.

Il romanzo precedente, Una vita al giorno, ti ha aiutato nella scrittura di quest’ultimo?

Direi di no per una semplice ragione. Ogni mio libro ha una idea di partenza, diciamo generica, che è sua, che non ha nessun legame con quanto scritto in precedenza. Poi ogni scrittore si organizza per come scrivere, sia chiaro. Io parto dall’inizio e vado giù, verso la fine della storia. In questo modo, il libro molte volte ti cambia mentre stai scrivendo, perché i personaggi si animano, inziano ad avere una loro vita e così c’è anche caso cambi la trama. Ecco, Il circolo degli ex non è stato studiato tantissimo. Avevo l’idea di fondo, che mi pareva interessante, ho scelto un inizio e da lì ho proseguito. L’idea si è poi andata strutturando e ha preso la forma che hai potuto leggere.

Credi che per romanzi come il tuo, capaci di offrire un involucro di leggerezza con all’interno un grado di complessità e di contatto con la realtà moderna, ci sia la giusta attenzione in Italia?

L’attenzione c’è, ma non ai piani alti dell’editoria. Nessun libro ironico, anche se scritto da dio, anche fosse scritto da Calvino in persona finirà mai a vincere un premio importante.

È scandalosamente triste che un certo tipo di romanzo non possa mai essere collocato in quella che possiamo definire la serie A della letteratura italiana. L’ironia è importante come la tristezza. Nei premi vanno invece solo certi tipi di scrittura, certi tipi di narrazione. Nella vita ci vuole ironia, lo dico a ragion veduta. Quindi anche in letteratura, perché la letteratura è vita.

Eppure di autori che hanno maneggiato l’ironia non scarseggiano…

Ne abbiamo avuti una marea! E poi, c’è stile ironico e stile ironico. Pensa ad Achille Campanile. Lui era un super ironico, decisamente buffo; scriveva bene, non in modo ricercato, ma aveva un tiro che funzionava. Oppure, sul fronte di una scrittura più “alta”, pensa a Luigi Malerba: narratore assolutamente dimenticato, a mio avviso. Ha scritto un sacco di romanzi e di racconti fra loro molto diversi. Ma basterebbe leggere i racconti contenuti ne La scoperta dell’alfabeto, per capire quanto fosse immenso. Ecco, lì vi è una nota ironica potente, autoriale, unita a una crudezza sapiente, che viene a galla in determinate situazioni. E le due cose messe insieme, funzionano. A mio avviso Malerba aveva una ironia intelligente.

Ti ritrovi ad aver compagnia fra gli autori italiani contemporanei?

Io leggo fondamentalmente autori morti.

Oddio!

No, non fraintendermi, volevo fare una battuta a effetto. Comunque è vero che leggo e rileggo spesso e volentieri autori che lavoravano negli anni Settanta. Oppure leggo autori stranieri. Di italiani contemporanei, viventi… Oh, se lo scopre Matteo Bussola… Però è così: leggo niente.

A mio avviso, hai la capacità di raccontare il contemporaneo attraverso i personaggi che metti in pagina…

Bello! Però lo sai che non è il mio obiettivo quello di raccontare, stigmatizzandolo, il contemporaneo e il come si vada a sviluppare?

E qual è allora il tuo obiettivo?

Lo stesso di Santina, mia mamma. Che non è una esperta, però legge. Ogni volta che le presto un libro, mi dice che non le interessa se è fantascienza, giallo o commedia. Lei vuole che contenga una storia.

Beh, questo è il minimo.

Aspetta, concludo. La storia deve avere il grande pregio di far sì che se il lettore è costretto a lasciare il libro, per qualsivoglia motivo, quando lo ritorna a prendere in mano si possa ricordare perfettamente dove si è interrotto. Quindi ricordare cosa facevano e dicevano i personaggi, pronto a immergersi nuovamente nella lettura per scoprire come va avanti la storia. Con Il circolo degli ex, ma anche con i romanzi precedenti, volevo fare questo, perché lo reputo il più grande pregio della narrativa. Inoltre posso dire che è il mio obiettivo costante come scrittore.

Il romanzo è diviso in tre parti, un po’ come fossero i passaggi di una commedia, e ognuna di esse contiene una serie corposa di capitoli brevi, a volte brevissimi. Perché hai scelto di usare questo montaggio?

Si riallaccia a quanto dicevo prima. A me piace lavorare su quella che difinirei una “finitudine”. Se ci fai caso, tutti i miei libri sono costruiti su capitoli abbastanza brevi. Io per primo come lettore, se mi imbatto in capitoli troppo lunghi e li lascio a mezzo per qualsiasi ragione, spesso devo ritornare sui miei passi, rileggere alcune pagine per ricordare bene cosa è accaduto in precedenza. Se invece il capitolo è breve, riesci a finirlo in maniera che, chiudendo il libro, hai memorizzato quanto i personaggi hanno detto e fatto.

Quindi non c’entra nulla la struttura della storia?

No, assolutamente.

E allora perché?

Ripeto: la semplicità per il lettore. Voglio che abbia dei capitoli in cui non si perda, che prima di andare a letto non li lasci a metà.

Torniamo al romanzo. Pietro, il protagonista, ha una dipendenza affettiva. Pensavo che questa dipendenza affettiva fosse quella dello schiavo d’amore, invece no.

Schiavo lo era. Però riflettendo sulla sua storia di coppia arriva a capire che lo erano stati entrambi.

Lui e Ginevra, la sua ex.

Lui e Ginevra. Capisce che nel loro gioco di prendersi e lasciarsi, l’ultima volta era toccato a lei prendere l’iniziativa e mollarlo, facendo ghosting. Quindi riflettendo sulla sua relazione Pietro inizialmente non capisce, non può, ci rimane sotto, come si dice.

I personaggi che gli fanno corona sono come un coro e raccontano la stessa situazione, ma da altri punti di vista?

Esattamente. Stesso problema, però in tanti modi diversi. Se l’amore è una dipendenza, non può essere uguale da persona a persona, ogni storia si presenta perciò come diversa dalle altre.

Sembra anche che Pietro abbia la capacità di complicare cose che sono relativamente semplici…

Lo sai che a molti lettori sta antipatico il mio personaggio? Per le cose brutte che ha fatto nei confronti di Ginevra, la sua ex, e di quelle che commette su Ginevra, la nuova compagna.

Il nome che si ripete è una specie di dannazione per Pietro. Riesce a superare la crisi da abbandono, e si ritrova con una ragazza che ha lo stesso nome della precedente: quella per cui ha una dipendenza affettiva. I suoi comportamenti diventano come minimo contraddittori, se non autolesionisti.

Proprio così. Ovviamente pesco dalla mia esperienza personale, come capita spesso. Però il romanzo, lo sappiamo, è un’altra cosa. E tutto ciò che fa di Pietro il personaggio protagonista del mio Il circolo degli ex, ha a che vedere solo con lui. È tutto finzione.

Poi ci sono i prestiti di storie che ti sono arrivati da varie persone.

Di cui abbiamo già detto. Aggiungo che non ho mai preso di sana pianta le storie per trasportarle nel romanzo. Da un racconto di una mia amica ho preso lo spunto per raccontare del padre della nuova Ginevra. Pietro lo immagina come il ragazzo di lei, equivoca, innescando alcune situazioni. Lo stesso Circolo, visto come una specie di Associazione Alcolisti Anonimi, è venuto fuori da un mio amico che vive a Parigi, incontrato una estate a Cattolica. Parlando con lui a ruota libera, a un certo punto mi ha suggerito di aprire un centro per le dipendenze amorose, sulla falsa riga dei centri per alcolisti.

Che nel romanzo è un luogo tra lo sfogatoio e il professionale.
Quando ti lasci per cento volte con una persona, non puoi più parlare con nessuno di questa faccenda perché lo hai già fatto e rifatto. Parenti, amici, conoscenti fuggono lontano da te. Nel Circolo sei in un luogo protetto, racconti, vieni ascoltato, ascolti i racconti e le pene di altri.

Nel romanzo, ci sono alcuni elementi che caratterizzano Pietro. Uno è la musica classica, l’altro una auto preistorica, in perenne debito di carburante.

Parto dalla macchina. Mi piaceva dare una identità al personaggio anche attraverso il suo mezzo di locomozione. Quindi la Seat Marbella mi è parso caratterizzasse bene Pietro con questo suo essere una bagnarola – che però non molla, anche quando la spia del carburante resta perennemente accessa.

Per quanto riguarda la musica invece, nasce da un ragionamento. Nella musica classica non ci sono parole, quindi non poteva creare collegamenti “tragici” con la fine della relazione attraverso i testi, come può avvenire fatalmente con le canzoni. La musica classica nel mio romanzo parla di se stessa e basta. Avrei potuto far ascoltare a Pietro solo colonne sonore…

O jazz…

O jazz, certo. Però la musica classica mi sembrava più buffa in questo contesto. Tragica, ma non collegabile direttamente alle sue vicissitudini.

Da quanto hai detto, sembra proprio che il tuo modo di scrivere corra nei pressi dell’autofiction. Continui a sentirti lontano da questa modalità?

Sì. Come sai ho frequentato l’autofiction con il mio romanzo precedente, ma Il circolo degli ex non è legato a quel tipo di narrazione per nessun motivo. Fondamentalmente l’autofiction non ha intreccio, mentre io volevo sviluppare con questo romanzo una trama, volevo portare avanti le azioni dei personaggi. Soprattutto volevo che arrivasse ad avere un finale.

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