Nel romanzo di Ian McEwan, Nel guscio, tutto gira attorno a un ventre gravido da cui un figlio vorrebbe uscire, un amante entra sempre più incautamente, e un marito vorrebbe tornare. Ma è il bambino non ancora nato a dettare il punto di vista sull’atto snaturato, sul complotto che si sta ordendo al di fuori del suo microcosmo- un guscio di noce- da cui ascolta tutto, ma impossibilitato a intervenire. Sento, dunque sono, dice il feto senza nome, ma lo dice con sarcasmo. Un buon blocco di partenza per rimodulare l’amletico “essere o non essere” che qui diventa “nascere o non nascere”. Amletico perché shakespeariana è la vicenda: vi è una madre, Trudy (Gertrude nell’originale) che è un po’ Lolita e un po’ Carmen Sternwood (ossia Martha Vickers), sorella minore dell’altrettanto fascinosa Vivian (cioè Lauren Bacall) in The big sleep di Howard Hawks, con le gambe lunghe, lo sguardo languido e i capelli d’oro; una non più giovanissima ragazza che si stanca del marito, lo caccia di casa e si prende come amante il fratello di lui, Claude (il Claudio di Hamlet) che pare avere come unica virtù quella che ha in mezzo alle gambe. Insieme decidono di sbarazzarsi di John, poeta poco dotato e editore idealista ma flaccido e fin troppo buono, per ereditare la casa fatiscente su Hamilton Terrace dove abita Trudy, in cui il disordine e la sporcizia prendono il posto del marcio in Danimarca e che sembra valere una fortuna. Lo avveleneranno ma non versandogli il veleno nell’orecchio, piuttosto facendoglielo bere mischiato a un frullato. A questo punto, dice il feto nella prima pagina del romanzo, ormai completamente capovolto, con le ginocchia schiacciate al petto e senza alcun margine di movimento, non ho soltanto la testa impegnata, ma anche tutti i pensieri. E i pensieri si interrogano sul mondo che ancora non conosce, se non tramite le percezioni uditive e i discorsi captati dai programmi di Radio 4- su cui, per fortuna, Trudy ama sintonizzarsi-; si interrogano sull’amore che si deve a una madre, e nella fattispecie a una madre scellerata; sulla responsabilità che ricadrà sul suo capo perché quando siamo a conoscenza di un crimine a partire dal suo concepimento, non possiamo fare a meno di schierarci dalla parte dei colpevoli e dei loro piani; si interrogano sul suo dovere di vendicarsi e sulla possibilità di non volerne sapere di venire al mondo; e ancora su temi e concetti di portata universale: Vivere confinati in un guscio di noce, vedere il mondo in due pollici d’avorio, in un granello di sabbia. Perché no, quando la letteratura tutta, e l’arte, e ogni impresa umana altro non sono che puntini nell’universo del possibile? È così che discorre tra sé e sé un non ancora nato.
Il punto è- e qui si distanzia irrimediabilmente dall’originale shakespeariano- che il bambino pronto a uscire dal ventre materno è un testimone, non solo chi dovrà porre rimedio a un mondo uscito dai cardini, out of joint; un testimone che racconta l’unica storia che può raccontare, come in Oltre il confine quando McCarthy fa incontrare il protagonista, il giovane Billy Parham, con una delle figure sapienziali che costellano il romanzo. Il paesaggio è spettrale, le rovine di una città affondata nello stesso fango con cui era stata costruita, l’ombra di una chiesa ormai crollata a cui fa la guardia un uomo, un ex-prete, che gli racconta la vita di un altro uomo senza più passato né futuro che aveva preso a tramare contro Dio, essendo giunto a pensare che gli atti esistono se esiste un testimone e che tutto è racconto. Pensava che Dio avesse bisogno dell’uomo per giustificare e testimoniare la sua esistenza ma il prete finisce per credere che la lezione di una vita non può mai appartenere a quella vita. Solo il testimone ha il potere di valutarla. È vissuta per l’altro soltanto. […] Alla fine tutti saremo soltanto ciò che avremo capito di Dio. Poiché nulla è reale al di fuori della sua grazia.
In un mondo diverso dal nostro non ci si preoccupava granché del cosa raccontavano le storie ma del come lo facevano perché erano patrimonio di tutti: erano miti, cicli, canovacci.
Dunque, tornando a McEwan, il bambino non ancora nato è l’unico che possa parlare della storia, che poi è sempre quella perché non c’è mai fine al raccontare, al rimodulare; e quel bambino è già quasi un uomo che conosce molte delle cose della vita, e che così ne parla: L’Europa, a suo giudizio in piena crisi esistenziale, debole e litigiosa, cova nazionalismi compiaciuti che sorseggiano la stessa buona birra. Confusione di valori, il bacillo dell’antisemitismo in eterna incubazione, le moltitudini dei migranti esauste, inferocite, stanche. Altrove, in ogni dove, inedite ineguaglianze economiche, con i super ricchi assurti a razza dominante a parte. L’ingegno impiegato dagli stati per escogitare nuove geniali armi distruttive, dalle corporazioni internazionali per eludere il sistema fiscale, da virtuosi istituti di credito per ammassare milioni come fosse sempre Natale. Sembra di sentire le parole di Mr Robot, la serie tv statunitense ideata da Sam Esmail, altro azzeccato confronto con l’Amleto shakesperiano dove Elliot Alderson, ragazzo introverso e sociopatico, abile hacker, morfinomane e schizofrenico, ingegnere informatico della Allsafe, decide di assestare un colpo fatale alla potente multinazionale E Corp, ribattezzata Evil Corp, per vendicare la morte del padre causata dagli sporchi maneggi della multinazionale. Come in Amleto anche in Mr Robot c’è un fantasma che appare al figlio ad imporre la legge della vendetta paterna. Ma in Mr Robot il tutto è complicato dal fatto che il padre è talmente introiettato da Elliot da essere una delle due parti in cui si scinde la sua personalità. Assistiamo così, di puntata in puntata, all’evoluzione della figura che si presenta, in principio, come leader anarco-insurrezionalista della f-society, organizzazione che intende liberare l’umanità dai debiti con le banche, viene poi riconosciuto come padre di Elliot e infine come proiezione della sua mente: mentre Elliot è assente, dorme o è assuefatto dalla morfina, Mr Robot prende il suo posto al comando dell’operazione che rovescerà le sorti dell’economia. Ma a imbrogliare ulteriormente la vicenda- per dire che c’è del marcio non solo in Danimarca ma anche in tutto il resto del mondo-, Elliot deve scontrarsi con le mire di un altro potentissimo gruppo di hackers cinesi a capo del quale vi è un travestito che, incidentalmente, è anche ministro della Cina. Dovrà decidere se agire o rimanere passivo, cioè essere “un uno o uno zero”, gli dice Mr Robot richiamando il codice binario alla base del funzionamento dei computer con cui lui hackera il mondo e tutti i suoi amici e conoscenti. Dietro ogni scelta c’è sempre un uno o uno zero, o fai qualcosa o non la fai. Il dubbio amletico e l’impossibilità di agire vengono qui riassunti in una doppia fase di attività della mente che si spacca tra azione- con cui la vicenda va avanti- e immobilità caotica- cioè il rifiuto di prendersi la piena responsabilità di quella stessa azione. Chi è che agisce: il padre o il figlio? Il dramma, come sempre, è nella testa che recalcitra e si oscura, lottando con se stessa. È sicuramente bloccato dai sensi di colpa, Elliot, e questo permette al fantasma del padre di riapparirgli e a lui di prenderne i panni. E questo fa male, fa male anche al corpo che è teatro della battaglia dove le due figure si scontrano e si prendono a pugni, lasciando segni sulla pelle, cicatrici e dolore. Non c’è grande speranza nel finale perché, come dice il capo della E Corp, tutto è meschinità, tutto è stato fatto per meschinità, e fare una cosa piuttosto che un’altra porta solo nuovi guai. Allora cos’è che potrà sistemare le cose? La risposta la dà una trans con cui passeggia la sorella di Elliot nell’ultima scena della terza stagione: Un atto di Dio. E adesso gli serve un super pompino, proprio come qualsiasi uomo di potere stressato che cerca di cavarsela, giusto? Questo è il massimo in cui si può sperare… Oppure si può accettare di essere testimoni di una vicenda, permettere ai fantasmi di venirci a trovare con tutta la loro corte di attori da istruire e, raccontata nuovamente la storia, farsi contagiare dalle parole di Amleto per cui readiness is all, l’essere pronti è tutto. È solo così che il feto può dire la sua e noi possiamo evitare di svelare il finale del romanzo di McEwan.
Ian McEwan, Nel guscio, Einaudi, 2017, 173 pp., traduzione di Susanna Basso