Durante l’adolescenza, uno dei miei film preferiti è stato senza dubbio Ufficiale e gentiluomo. Vi ricordate vero quel gran pezzo di gnocco di Richard Gere in divisa? La storia sembrava fatta apposta per solleticare i primi turbamenti di noi fanciulle delle scuole Canossiane. La trama banale è quella di un Bildungsroman ambientato in una caserma di cadetti ufficiali con immancabile lieto fine.
Comunque, sarà forse che fin dalla prima elementare ho respirato il fascino discreto della divisa delle madri sorelle, sarà l’ambiente coercitivo di una scuola cattolica privata, dove le lezioni iniziavano immancabilmente con la preghierina e dove le sberle erano il metodo educativo montessoriano per le bambine ribelli, ma lo stile uniform a me è sempre piaciuto moltissimo. Mi affascinava tanto che per diversi anni, durante il periodo universitario, ero solita indossare pantaloni cargo, camicia verde militare, giacche con mostrine.
A dire il vero ho sfoggiato anche un taglio di capelli tipo Sinéad O’Connor. Poiché, alla divisa alternavo un saio simil francescano, mi sdoppiavo allora tra Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli e uno dei protagonisti di Mad Max. All’epoca acquistavo rigorosamente solo al mercatino dell’usato di Bologna, ascoltavo i Ramones, i Clash, The Stooges o i Dead boys. Bevevo birra e vino a poco prezzo nei centri sociali. Mi dipingevo il corpo di tatuaggi e discutevo tanto di cinema e letteratura.
Così l’amore diventava poliamore e l’eros era un fatto assolutamente politico. Indossare una divisa significava andare contro il sistema, appartenere a una comunità con cui condividere gli stessi valori incarnati nel mito di Che Guevara e nelle canzoni dei CCCP; oggi, invece, indosso sempre lo stesso abito imposto dal mio ruolo sociale.
Cos’è questo se non una divisa più grigia, più rigida e conforme alle regole comuni? Cosa rimane del mio essere ribelle? Sicuramente il mio lato fetish e la passione per il look a ispirazione militare all’interno però di determinati contesti. Lo stile uniform, infatti, si ispira al senso di rigore e all’educazione, al controllo condiviso anche dal bdsm. In questo settore, infatti, non è infrequente trovare estimatori di mostrine, medaglie e di abbigliamento ispirato alle feroci uniformi naziste.
In realtà la componente ideologica è irrilevante perché, chi sceglie come stile quello militare, lo fa per un complesso meccanismo di seduzione che l’oggetto in sé esercita. Non tutti sanno, infatti, che lo stilista delle divise del corpo militare di Hitler non era un sarto qualsiasi, ma Hugo Boss. Sue erano le uniformi per la Wehrmacht, per le ss e la Hitlerjugend. Fu grazie a questa commessa che si vide aumentare fama e profitti sfruttando prigionieri di guerra come operai. Altro che Schindler’s List!
Associare l’idea della costrizione alla sessualità non è un fatto nuovo, così come non è strano ritrovare nell’immaginario erotico-fetish questo tipo di travestimento. Un antecedente importante nella decontestualizzazione dei simboli militari furono i Sex Pistols che palesarono nei loro concerti la svastica. Proprio minimizzandone la portata ideologica, la mostrarono in pubblico provocatoriamente ma senza alcuna simpatia nazionalsocialista o fascista. Tra gli altri che ne fecero un’icona non posso non citare Jimmy Page dei Led Zeppelin, noto per indossare capi e fregi nazisti fin da quando suonava nei Yardbirds.
Un documento che attesta la passione sviluppata dagli anni settanta per la divisa militare è Il portiere di notte. Film memorabile di Liliana Cavani (1974), dove la scena di Charlotte Rampling a torso nudo, coperta solo dalle bretelle, un paio di pantaloni, e un berretto militare sul capo ancora oggi turba l’immaginario erotico occidentale. Non a caso resta nella memoria collettiva come una delle sequenze più affascinanti del cinema. Ambientato a Vienna nel 1957, Max, ex militare nazista e capo ss, lavora come portiere di notte presso l’hotel Zur Oper, dove arriva un famoso direttore d’orchestra con la moglie Lucia.
Questa era un’ex detenuta del campo di concentramento nazista di Max. Attraverso flashback di grande impatto emotivo, viene ricostruita la vicenda della donna: Max aveva arrestato Lucia ancora bambina e ne aveva fatto il suo oggetto erotico. Alla fine Lucia, ancora fortemente affascinata e sottomessa a Max, decide di restare nell’albergo e riallacciare con il suo aguzzino proprio quel rapporto sadomasochistico a cui era stata sottoposta da prigioniera.
L’uscita della pellicola fece gridare allo scandalo e molte sale ne rifiutarono la diffusione. Accusato di immoralità venne criticato perché sdoganava un tema scomodo e perché troppo esplicito nelle scene di sesso: la Rampling consuma il rapporto con Max stando sopra di lui. Fu definito perverso perché, agli inizi di quel decennio, l’unica posizione concessa alla donna perbene era sotto. Inoltre, il protagonista è un ex nazista. Figuriamoci quanto, in piena Guerra Fredda, poteva risultare pornografico mostrare il nemico dotato di una sua drammatica umanità.
Comunque, nonostante le critiche e gli anatemi dei benpensanti, fu subito chiaro che il film meritava maggiore attenzione e di essere sottoposto a una lettura molto più complessa, destinata alla fine ad approfondire il rapporto tra potere e sottomissione, tra la figura del tiranno e l’individuo inerme, ma che proprio attraverso la sua apparente docilità arriva a dominare il dominante.
La divisa militare ha sempre il suo fascino. Ahimè, quante donne si sono perse dietro spalloni, gagliardetti e berretti da marinaio. Da Anna Karenina con il Conte Vronskij, alla frivola Lydia Bennet (la sorella sciocca in Orgoglio e Pregiudizio che si lascia facilmente ingannare dal soldato Wickham) per citarne alcune.
Se in origine l’abbigliamento militare lanciava un messaggio di conformismo e disciplina, tradisce le aspettative quando autorità e sottomissione diventano ruoli codificati in un gioco più raffinato. Quando, cioè, si trasforma in δρᾶμα, dove ogni tipo di uniforme ha il potere di creare identità alternative. Alterità che permettono all’individuo di esplorare le pieghe dell’Io più profondo.
Ilaria Cerioli