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Il Festival delle Storie. Intervista a Vittorio Macioce

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La cultura può cambiare il mondo, partendo dai territori più piccoli. Lo dimostra il Festival delle Storie, nato nel cuore della Val di Comino e cresciuto fino a diventare un punto di riferimento per la cultura in Italia.

Come può un festival cambiare il destino di un territorio? E come può la cultura, spesso considerata un lusso, nutrire davvero la vita quotidiana?

In questa intervista ne parliamo con Vittorio Macioce l’autore e giornalista visionario e non allineato che insieme a Rachele Brancatisano (autrice di Un giorno da pecora) è il fondatore del Festival delle Storie.

Questa iniziativa partita dalla Val di Comino si è trasformata in un vero e proprio ammortizzatore culturale in grado di operare un contagio di idee e di stimoli che hanno reso fertile il territorio anche grazie a esperimenti formativi innovativi e di successo.

Vittorio Macioce nato a Sora ma di Alvito, paese a dodici chilometri, è giornalista e caporedattore del “Giornale” nonché ideatore e animatore del Festival delle Storie della Valle di Comino e fondatore e direttore artistico del Festival delle Storie. Ha fondato la rivista O’Magazine e ha pubblicato per Salani, il romanzo Dice Angelica.

L’intuizione geniale di Vittorio Macioce e del suo Festival delle Storie è forse l’ultima grande rivoluzione culturale che parte da territori assetati e affamati di verità, di arte e di saggezza.

Prendersi cura dei propri territori e dei propri spazi significa coltivare la società e raccoglierne i buoni frutti, per portare nella realtà quella rivoluzione silenziosa che per Adorno si poteva fare solo in Letteratura.

E il Festival delle Storie fa proprio questo: coltiva la cultura nel cuore della Valle di Comino.

Un altro aspetto affascinante del festival è il suo impatto duraturo. Ragazzi cresciuti partecipando al festival hanno intrapreso carriere in giornalismo, recitazione e altri ambiti, grazie all’ispirazione ricevuta.

In questo modo la cultura diventa uno strumento con il quale riprendersi in mano la vita e poterla cambiare. È allora che i miracoli succedono.

E questa è la prova che con la cultura non solo si mangia ma grazie alla cultura si vive.

Carlo Tortarolo

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C.T. :Come nasce l’idea del Festival delle storie?

V.M.: Nasce quindici anni fa nel 2009 per una serie di motivi: il primo che in quegli anni c’era la crisi finanziaria europea. Potevo scrivere editoriali sulla crisi, però a un certo punto mi sono detto: che fai per la res pubblica? E visto che difficilmente avrei accettato un incarico pubblico di qualsiasi tipo mi dissi che almeno potevo fare la manutenzione del giardino di casa nella mia valle.

Poi ci sono state alcune cose contingenti. C’era un mio amico che aveva un albergo a San Donato in Val di Comino che mi chiedeva se potevamo inventarci qualcosa per coinvolgere un po’ di persone, per fare una cosa anche culturale nella mia terra.

Succede allora che ero ospite a Piacenza a parlare di letteratura americana e mi trovo in un pub con Grayson Capps folk singer di New Orleans autore di colonna sonora del film Una canzone per Bobby long con John Travolta e Scarlett Johansonn e suo padre Ronald Everett Capps che era l’autore del romanzo da cui è tratto il film.

C’erano con me anche Sarah Lee Guthrie che è la figlia più giovane del cantante folk Arlo Guthrie e la nipote di Woody Guthrie, sposata con il nipote di Steinbeck.

Chiedo così a Greyson Capps se avesse voglia di venire nella mia valle dove avremmo fatto un pomeriggio/serata su un certo tipo di letteratura americana: quella legata al viaggio, all’avventura ma anche un po’ deviante come il film Una canzone per Bobby Long.

Mi dice: “Guarda ho un concerto a Bologna, il giorno dopo se vuoi vengo da te”. Grayson mi chiese quale fosse la stazione più vicina, e gli risposi Frosinone.

Quindi organizzo in questo posto (Villa Grancassa) mettendo su anche la prima associazione che si chiamava “all’antrasatta” (che significa all’improvviso). Sto pensando che Grayson e il padre non sarebbero mai arrivati invece alle 18 arrivano insieme al mio amico Selba Pezzani traduttore del romanzo.

E come è andata?

Eravamo una trentina di persone. Grayson si mette a suonare in pomeriggio e finisce alle 4 del mattino. Una cosa meravigliosa di una magia mai vista.

Grande.

Da lì nasce l’idea, tra l’altro, io chiamo come gruppo di appoggio due ragazze Rachele Brancatisano autrice di Un giorno da pecora e Serena Fagnani.

Rachele è fondamentale perché lei che mi convince: “Perché non facciamo un Festival di letteratura e di autori?. Lo facciamo però itinerante, non solo nel loro paese ma in diversi paesi della valle”. Insieme a me Rachele è la fondatrice del Festival delle Storie.

Io chiedo per i primi anni aiuto a Minimum fax a Daniele di Gennaro che per due anni mi ha dato una mano.

Insieme a lui esce il nome Festival delle storie.

Nel 2009 muore mia madre ma, prima di morire, può vedere in embrione quello che avevo fatto e mi dice: “Continua. Fai qualcosa per la tua terra”.

Ecco come nasce il Festival delle storie.

Molto bello. Anche perché c’è il rapporto con la propria terra e il desiderio di accudirla. E poi ho le storie sono un concetto ampio che racchiude canzoni, arte e musica.

E anche racconti di personaggi.

Sì, ho visto quest’anno per esempio tutte i vari libri che ci sono stati da libro su che quello su vent’anni era quello su Pantani, Matteotti, Berlinguer, Beccalossi poi c’era anche Gianpaolo Manca e Cottarelli.

Sì, anche Eugenia Roccella. Il festival libri mi aiutano perché il Festival è un’ottima occasione per presentare un libro.

Vedo che c’è stato Pupi Avati.

È venuto per amicizia.

Ma anche ha fatto un libro sull’orto americano

Sì, è vero.

Di quest’anno, per esempio, quale storia ti ha colpito di più?

Allora come autore è piaciuto molto un libro la storia finale della Renault quattro rossa di Moro Per arrivare a quel punto fa la storia della nascita dell’automobile di 800 inizi 900. Mi interessa anche perché quel tratto di Belle Époque assomiglia molto alla metamorfosi che stiamo vivendo.

Sono d’accordo.

Guarda che le auto non nascono per trasportare le persone perché quella funzione all’inizio andavano benissimo coi cavalli.

Nascono per il mito della velocità e quelli che le cominciano a costruire tipo Renault lo fanno per partecipare a questi giochi. Penso sempre che le cose all’inizio accadano quasi sempre legate ad evoluzioni effimere che spesso non ti accorgi e ti arrivano addosso. Quindi mi piaceva questa cosa qui.

Poi Pupi Avati è venuto alla terza volta al Festival e ha affascinato tutti quanti.

Oppure quando Giampaolo Manca comincia a parlare e inizia a piovere. Penso di spostarci all’interno ma accade un miracolo perché le persone restavano lì. Apro l’ombrello e lo do anche a Gianpaolo e al moderatore e tutti aprono l’ombrello quindi quell’incontro si svolge sotto la pioggia per questo lo chiamavo rarità non è la prima volta che accade a Pescia. Credo che sia dovuto anche alla capacità di raccontarsi di Giampaolo. Chiaramente questo, lo dice anche lui e ci sta molto attento, deriva dal fascino che ormai il pubblico sembra provare per i grandi criminali.

Ha anche un modo di raccontarsi molto avvincente e ha un modo diretto e simpatico di spiegare le cose.

Una delle cose che più mi ha emozionato che amo raccontare è quando venne Carla Fracci per un intervento. La portai a mangiare in un’osteria, una casa di pastori gestita da un pastore di nome Loreto in un posto che si chiama Casa Lawrence ci ha vissuto D.H.Lawrence che era nella valle per guarire da problemi polmonari e ha anche scritto The Lost Girl, (La ragazza perduta) un romanzo ambientato in valle. E lei mi fa: “Ma che bello mi ricorda la mia infanzia a Milano…”

Le faccio: “A Milano?”. “Ma certo, perché dove abitavo io a Milano era ancora campagna”. Una sorta di ragazza della via Gluck.

Ma non è questo che mi ha emozionato. Perché alla fine del suo racconto, in piazza comincia una processione di ragazzine e bambine che facevano danza a Sora o nella mia valle.

Che bello…

E lei ha firmato, a una a una, tutte le scarpe e credo che per ogni ragazza che stava lì, ci ha messo circa un’ora. E per quelle ragazze è stato un momento indimenticabile. Queste sono le cose per cui vale la pena fare il festival. Poi se vuoi ti dico anche gli altri motivi per cui vale la pena.

Certo.

Quindici anni fa sicuramente perché con il Festival abbiamo cominciato a illuminare la valle di Comino sulla mappa dell’Italia e del mondo. Un posto molto bello ma poco conosciuto del versante laziale del Parco nazionale dell’Abruzzo quindi lavoro di marketing territoriale. Poi perché si è creato in quindici anni un pubblico che stupisce tutti quelli che vengono. Perché è un pubblico abituato. Perché vedi fare questo tipo di lavoro ha un senso se il lavoro che fai è molto simile a quello del contadino prima devi riscaldare a terra poi devi arare, devi seminare e concimare.

E sì.

Alla fine, raccogli. Io oggi posso dire che nella valle di Comino la terra è lavorata, perché le terre non lavorate sono sterili, dure, avide. Oggi la valle di Comino è un territorio fertile dove tante iniziative culturali sono nate in seguito al Festival.

Perché il bello di questi Festival è che poi è come se si prolungassero durante l’anno, ricordo l’Acqui Storia ad Acqui Terme e durante l’anno ha numerosi eventi collegati. Questi eventi diventano stimoli importanti culturalmente. E diventano fondamentali per il territorio al di fuori di Roma, Milano o Torino, grandi città dove ci sono diverse possibilità di incontri e di stimoli culturali.

Noi siamo forse l’unico festival che assomiglia a un circo perché oggi giorno ci spostiamo di paese in paese. Abbiamo raggiunto quest’anno cinque paesi ma abbiamo fatto anche dodici paesi è un po’ il circolo culturale che arriva.

Ma la cosa di cui ormai sono orgoglioso è l’opportunità che puoi dare. Un esempio pratico. Dopo 15 anni, ragazzine e ragazzini che all’inizio avevano meno di 10 anni sono cresciuti, io la chiamo la generazione Festival delle Storie. Sono cresciuti col Festival. La cosa bella è che ti accorgi che hanno cambiato anche il modo di guardare le cose.

C’è una ragazza di Roma con i nonni a San Donato Val Comino che veniva al Festival e un anno fa un corso di giornalismo con docente anche Gianmarco Chiocci, ora direttore del TG1 e mi scrive una lettera bellissima: “Ho deciso di fare il giornalista a 16 -17 anni perché ho fatto quel corso del festival delle storie e ora che sono una professionista e sono stata assunta ad Avvenire voglio verrei a darti una mano per ridare quello che il festival mi ha dato”.

Una soddisfazione enorme.

Però non è un’eccezione, c’è insomma un’altra ragazza che è venuta al Festival tre anni fa a fare una Summer School, aveva difficoltà, si era persa all’Università. Il Festival le ha svoltato la vita, ha preso la laurea triennale in Lettere e ha dato tutti gli esami uno dopo l’altro. Sono molto orgoglioso di lei.

C’è un ragazzo che da un bambino è venuto al Festival testa a tua madre non solo fa lettere alla Cattolica ma ha vinto la borsa di studio di sei mesi per Harward. Ci sono ragazze del mio paese che stanno facendo le attrici che sono cresciute col Festival.

Mi piaceva dare l’opportunità che io non ho avuto da ragazzo quando io ho cominciato.

Volevo fare il giornalista a quattordici anni però quando lo dicevo sembravo matto o presuntuoso perché non c’era quel mestiere nei mestieri del mio paese. Potevi fare il mestiere di tuo padre o di tua madre, il meccanico, l’avvocato, ma il giornalista non era nella lista dei mestieri possibili perché non c’erano mai stati giornalisti e anche per cominciare a fare il giornalista in Val di Comino non sapevi neanche dove andare perché il giornale più vicino era Ciociaria oggi a Frosinone che per me era un altro pianeta. E, quindi, poter dare a chi ha dodici anni l’idea che si può fare per me è molto.

Con questo esempio si potrebbe parlare di “contagio culturale”?

È un contagio culturale. Ci tengo a dire che per anni la Regione Lazio ci hanno ignorato anche se facciamo dei numeri non soltanto come presenze perché insomma quando è arrivato Travaglio in un paesino di 2000 abitanti c’erano 4000 persone ma vendiamo anche tanti libri.

Siete un vero e proprio caso di scuola, poi l’elemento itinerante ricorda un po’ La Milanesiana di Elisabetta Sgarbi.

Devo riconoscere che tutte le case editrici hanno avuto un occhio di riguardo Mondadori, La nave di Teseo, la Einaudi ma tutti. Chiaramente la mia casa editrice e tutto il gruppo Salani mi hanno sempre aiutato; quindi, dalle case editrici non ho mai avuto nessun problema.

Anzi Elisabetta mi ha fatto conoscere una persona, purtroppo morta, ma meravigliosa che era Sergio Flavio Perrone che fu lei a chiedermi di portarlo al festival perché Sergio che non andava mai da nessuna parte le disse che voleva venire qui.

Penso che quelle che avete fatto siano cose importantissime anche per quello che hanno lasciato e che lasciano. Se qualcuno andava male all’università e in seguito al “contagio” riesce a laurearsi bene significa che i semi sono importanti e che i personaggi che sono entrati in contatto sono riusciti ad aprire quelle valvole che connettono l’uomo a quelle sensibilità più profonde che poi ti permettono di prenderti in mano la vita e decidere che cosa vuoi fare da grande. E farlo in ambito culturale è uno dei massimi obiettivi a cui può sperare di arrivare un’iniziativa di questo tipo. Le scarpe di Carla Fracci quelle bambine se le ricorderanno tutta la vita.

Sì, c’è dubbio questo ne sono sicuro.

Qual è il prossimo passo per il Festival delle Storie? Hai già in mente nuove iniziative o progetti?

Vorrei fare sempre più laboratori. Mi piace ormai l’idea di formare. Quello che bisogna cercare di fare di più magari anche durante l’anno, anche se non ci riuscirei da solo, sarebbe fare dei laboratori di fotografia come ne ho fatti di scrittura, di lettura, oppure di nuove tecnologie.

Se oggi ho un’ambizione è quella di dare ai ragazzi un servizio che rimanga.

Durante tutto l’anno?

Guarda non è facile da fare ma non mi dispiacerebbe pensare a questo come evento stabile.

Sarebbe bello riuscire anche a fare sempre più eventi nei bar nelle ville dove ci sono i giardini e diversificare un po’. Non fare solo il rullo della piazza, vorrei cercare di aumentare la parte itinerante, cioè, cercare di fare fruttare ancora meglio le possibilità che offre la valle.

Sono convinto che si debba portare il Festival dove c’è casino, cioè nel senso che di solito uno tende a chiudere la cultura in spazi lontani dalla vita quotidiana.

Mentre la cosa bella del Festival è quella di andare dove normalmente c’è la gente, cioè, non fare della cultura un recinto ma portarla nei tavolini del bar mentre gli anziani giocano a carte.

L’abbiamo già fatto ma vorrei farlo ancora di più.

Questo è molto bello, perché, come diceva Pasolini, la vera cultura deve essere in grado di parlare con chiunque e non può rimanere nelle torri di lavoro.

Sì, è proprio questa la vocazione del Festival, quella di parlare a tutti.

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