Sei una valida narratrice orale, con una formazione teatrale alle spalle, e una romanziera con un esordio riconosciuto e apprezzato: quanta oralità finisce nelle tue storie, quanta drammaturgia scritta – pur di darti all’istinto narratologico – resta fuori?
Le due cose non sono affatto in concorrenza, tutt’altro. Se la parola appartiene a una lingua viva è sempre detta. La letteratura ti dà la possibilità di dare forma a una visione senza scendere a patti coi budget di produzione: se ti va di far volare un personaggio conta solo la tua capacità di renderlo verosimile, nessuno ti dà limiti sul numero dei personaggi (in teatro già più di cinque è un kolossal), e puoi addirittura ambientarlo nel passato senza dover ricorrere a un costumista. Che la si traduca per il teatro o per la letteratura, una storia è prima di ogni altra cosa una visione. Ma di che visione si tratta? Ne Il teatro e il suo doppio, Artaud parla del geroglifico di un soffio, ovvero il respiro che precede la parola e che conserva l’afflato di un pensiero ancora afasico, pura immagine. Il lavoro di chi scrive sta nel tradurre quella lingua folle del pensiero/immagine in parola. Non ti pare un’operazione alchemica?
La parola ha un suo potere intrinseco perché conserva l’energia di tutti quelli che l’hanno proferita prima di te, metterla su carta vuol dire tramandarla e far sì che altri se ne approprino e la pronuncino, eventualmente ne traslino il senso, inevitabilmente la corrompano, ma chi scrive lo fa per permettere alle parole a cui tiene di restare in vita, e vivere implica cambiare, trasformarsi e anche corrompersi. È in questo vincolo tra necessità e rischio che sta l’incanto affabulatorio.
Con la tua scrittura hai dato voce a una Secondigliano di periferia, eppure centro urbanistico universale nel tuo romanzo. Muovendo le fila di svariate voci narranti. Ammesso che esista – concretamente – una definizione utile di genere letterario, qual è quello che da scrittrice preferisci quando narri una storia?
Non saprei quale genere preferisco, né da scrittrice, né da lettrice. Io leggo tanto e di tutto. Dai manga ai classici passando per la letteratura di genere e la saggistica specializzata. E da scrittrice non mi siedo alla scrivania pensando a un genere in particolare. È la storia a scegliersi consistenza, toni, colore e aroma.
Quali sono gli autori classici da cui non vorresti mai separarti? Quali gli autori contemporanei viventi?
Mi mettono sempre in crisi le domande sulle preferenze, come quando a scuola mi assegnavano il tema sul migliore amico, ma è un problema mio, eh! Io a giro ne avevo uno diverso, poi crescendo ho capito che amo fare cose diverse con persone diverse, con ognuna ho un grado di intimità, ma ciò non li mette in classifica. Ogni cosa che mi offrono mi serve in momenti e periodi precisi, e con la lettura per me è esattamente la stessa cosa: i romanzi sono esperienze e gli autori diventano amici che ti accompagnano nel corso della vita. Se dovessi chiudere gli occhi, fare un respiro e scrivere, tirerei fuori una quarantina di nomi almeno, ma suppongo che né a te, né ai lettori possa interessare un elenco, quindi, con l’angoscia in corpo per quelli che non troveranno qui rappresentazione, scriverò di alcuni incontri fondanti, da che ho memoria di lettrice.
Goliarda Sapienza mi ha mostrato le zone d’ombra del mio essere donna, quando non ero disposta a riconoscerle. L’ho odiata, rifiutata e poi cercata di nuovo, come si fa con una mamma.
Con John Steinbeck ho scoperto i narratori che stanno un po’ indietro, quelli che danno spazio ai personaggi e modulano la loro voce narrante su di loro. Quelli che prima dici: “Che storia!”, e solo dopo: “Quanto è stato bravo a raccontartela.” Papini e Canetti, per ragioni molto diverse, mi hanno confessato la necessità di aggiungere all’impasto letterario una buona dose di meschinità, pusillanimità e invidia, tanto a toglierle si sentono lo stesso e hanno un sapore più amaro.
Con Bulgakov ho imparato a sognare e a piangere, capendo che non è importante chiedersi quanto siano ispirati alla realtà le vicende di cui leggi, se ti smuovono qualcosa esistono e ti sopravvivranno.
Amado mi ha insegnato che abbiamo sempre una città nel cuore, nel nostro caso è quella in cui siamo nati. Lui ha parlato di Bahia mettendo a fuoco i bahiani perché la ricchezza dei luoghi sono gli esseri che la animano.
Da Shirley Jackson ci vado quando ho bisogno di ipnotizzare le mie morbosità e cantargli una ninna nanna.
Per i contemporanei, quest’anno allo Strega concorre un classico del futuro: Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone. La scrittrice ha tessuto lirismo e cronaca con un bisturi affilatissimo, assurgendo a simbolo sociale una vicenda privata, solo all’apparenza.
Che rapporto hai con il cinema e i fumetti? E quali sono i tuoi autori preferiti di questi due medium narrativi?
Il neorealismo cinematografico italiano l’ho amato moltissimo. Il modo in cui abbiamo metabolizzato la seconda guerra mondiale è stato eccezionale. Anche nel teatro, noi abbiamo avuto Eduardo, mentre in Europa c’erano Beckett e Ionesco (eccezionali, eh!), annichiliti e frammentati. Eduardo ricostruiva un senso seguendo il canovaccio quotidiano che aveva come protagonista un personaggio con una dignità e dei valori che non esistevano più, ma che lui rese tanto credibile da lasciare agli spettatori l’illusione di assomigliargli, loro credettero di essere così, mentre lui li spingeva ad esserlo. Fellini, Monicelli, Germi, Scola, ma anche il grande cinema russo di Tarkovskij e Sokurov. L’espressionismo di Fassbinder, la Nouvelle Vague, il cinema americano Old School di Capra e Lang. Lubitsch, che sceneggiature quelle di Lubitsch! Ah, ho un debole per i film horror, soprattutto quelli di tematica spiritista. Per i mangaka te ne metto giusto tre, rappresentativi: Kentaro Miura, Nagabe e Junji Ito. Poi tu considera che io da ragazzina ero una piccola hikikomori, passavo le mie giornate a leggere e guardare film. Con gli amici ci chiudevamo in casa a sfumacchiare e ascoltare musica, molta prog italiana e tanto rock psichedelico.
Ogni scrittore immagina un lettore ideale. O forse no. Per te esiste? Se sì, il tuo lettore ideale come è fatto?
Per Nannina ho immaginato un pubblico molto vasto, di persone di età diversa, sia uomini che donne, in maggioranza donne, il pubblico dei miei spettacoli insomma. Questa è la ragione per cui ho stratificato molto, immaginando che ognuno potesse trovare nel romanzo i suoi riferimenti e, in base al proprio background culturale e alla condizione sociale, cogliere in superfice o andare più a fondo, senza sentirsi escluso. O almeno, l’intenzione questa era. In futuro chi lo sa, ti farò sapere.
Come impieghi il tempo quotidiano dedicato alla scrittura delle tue storie?
Fin’ ora è andata così: penso al mio mondo e lo abito, anche per lunghissimo tempo. Ci torno in tutti i sovrappensiero, gli do il buongiorno e la buonanotte, ci ritorno quando mi annoio tra la gente, poi quando non posso fare a meno di pensarci pure nelle situazioni in cui solitamente me la spasso, allora capisco che è venuto il momento di scriverne. Mi siedo e progetto: scaletta delle scene e prima stesura. Lascio decantare, dimenticandomene completamente, dopodiché provo a rileggerlo come se me lo avesse mandato una che mi sta parecchio sul culo, annoto le cose da migliorare e passo alla seconda stesura. In prima e seconda stesura scrivo dalle tre alle cinque ore al giorno, tutti i giorni, salvo imprevisti. Sono fortunata ad avere un compagno che si prende cura di me, della casa e gli piace vedermi felice a lavoro.
Quale tipo di storia non scriveresti mai?
Una storia per cui non sento trasporto, una che non parta dall’ esigenza viscerale di esplorare quello che mi fa paura o che desidero, o meglio tutte e due cose assieme.
Ti andrebbe di raccontarci quanto ti sei allenata, in tutti questi anni, per arrivare al tuo potente esordio letterario?
Mi sono allenata tanto, senza saperlo e quindi non mi è costato mai fatica. A quindici anni ultimavo il mio primo romanzo, ce l’ho ancora nel cassetto, per fortuna non mi venne l’idea di proporlo a qualcuno, mi sarei solo demoralizzata perché era pessimo, ma anche quello è servito. La grande gavetta l’ho fatta scrivendo racconti da portare in scena e in seguito con la drammaturgia. Lì il feedback è immediato, aggiusti il tiro e capisci cosa funziona, a livello di ritmo. Il ritmo è tutto, sia per la voce che sulla pagina scritta.
In fondo, alla fine della corsa del vivere quotidiano, tu perché scrivi storie?
Io scrivo, leggo e mi nutro di storie perché una vita sola non mi basta e la mia non è sempre così avvincente. In ultimo, attraverso la scrittura addomestico le paure e i desideri che mi abitano; per farlo ho bisogno di lasciarle sconfinare: la pagina è un luogo che sento sicuro, almeno dal rischio di un tso.
Questo è un mondo dove sembra – ad oggi – aver vinto l’immagine, a discapito della parola scritta. Eppure c’è chi resiste. Ti andrebbe di dirci perché leggi (ancora, in questo mondo contemporaneo) libri?
Ti ho raccontato già di come per me tutti questi medium veicolino le stesse visioni affidandogli traduzioni diverse di una stessa lingua primigenia. Ciò detto, leggere resta un atto di pura libertà, meno orientato rispetto ai mezzi che ti impongono l’immagine e restringono di molto l’orizzonte immaginifico. Perdersi tra le pagine di un libro è un’esperienza travolgente. Ti basta un oggetto piuttosto economico e facilmente trasportabile, tecnicamente maneggevole per catapultarti nei multiversi più assurdi. Non c’è nulla di più immersivo di un romanzo, nemmeno la realtà aumentata. Non è vero che non c’è tempo, a ritmo lento un romanzo di duecento pagine lo leggi in quattro ore. Molti non leggono perché non hanno fatto le esperienze giuste e si sono allontanati dalla lettura. Bisognerebbe parlare ai librai come si parla agli psicologi, perché il vero libraio ha sempre la ricetta che fa al caso tuo; il libraio però, non il commesso di libreria.
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Stefania Spanò è cantastorie, interprete Lis e insegnante di sostegno nella scuola secondaria di primo grado. Conduce da anni laboratori di teatro e poesia visiva nelle periferie turbolente dell’hinterland napoletano, nel resto d’Italia e all’estero. Come cantastorie porta in giro i cunti della tradizione di famiglia e quelli scritti da lei. Sogna di fare il giro del mondo con i suoi scugnizzi e tornare a Secondigliano con antidoti e pozioni esotiche di disobbedienza civile.