Mi affascina il periodo storico compreso dalla fine della seconda metà dell’Ottocento agli anni venti del Novecento. In particolare adoro l’esperienza del Decadentismo i cui centri vitali, Londra, Parigi e Vienna, erano le grandi città da cui partivano mode, tendenze e suggestioni. Qui approdavano artisti e avventurieri, donne fatali e soldati in licenza pronti a gettare le fortune di famiglia nel gioco o nel piacere del talamo. Parigi, Londra e Vienna a fine secolo sono metropoli vivaci, che nascondono però dietro lo sfavillio dei varietà e dei teatri, numerose contraddizioni. Da una parte, infatti, ci sono le fabbriche, dove lo sfruttamento della classe operaia è in attesa del risveglio socialista e dove regna l’alienazione e la disuguaglianza sociale; dall’altra la selvaggia urbanizzazione aumenta la criminalità, la prostituzione e la nevrosi di una classe borghese che preferisce nascondere la polvere sotto il tappeto. Alla crisi della mentalità positivistica e della scienza come strumento di indagine della realtà, si accompagnava infatti negli ultimi decenni del XIX secolo il tramonto dell’economia e dei valori della borghesia, per dare spazio alle politiche aggressive e imperialiste che porteranno gli Stati a confrontarsi prima nei territori di conquista poi nelle trincee a partire dal 1914. Così, mentre gli europei si preparavano a vivere “l’impero alla fine della decadenza” come dirà Verlaine, gli artisti cercano nuove soluzioni rifiutando uno stile accademico e museale. E arte e vita diventano un tutt’uno. La vita stessa deve farsi arte: Mon art c’est moi. Con questo motto presento l’opera di Franz Von Bayros, illustratore e pittore austriaco, il cui nome era sinonimo di imbarazzo e pruderie nel bel mondo viennese. L’artista, (Zagabria nei 1866- Vienna nel 1924) noto per avere raccontato nelle sue opere l’eros in maniera raffinatissima e maliziosa, è influenzato dalla sontuosità di Klimt e dall’arte della secessione viennese, dalla plasticità di Schiele e dal modernismo di Von Stuck. Entrato presto in contatto con i salotti buoni, nel 1907 divenne famoso per aver subito un processo a causa delle sue incisioni al romanzo galante Racconti al tavolo da toilette (Erzählungen vom Toilettentisch) di Max Semnerau. In realtà Bayros era conosciuto come un abile incisore e grafico, tanto che curò non solo l’illustrazione del Decameron nell’edizione Berlinese del 1910 e le Mille e una notte, ma anche la pregevole Divina Commedia pubblicata in tedesco a Vienna nel 1921.
Elegante frequentatore dell’alta società mitteleuropea, su commissione di ricchi privati, creava ex libris a tema fortemente licenzioso e oggi raccolti nell’opera Il giardino di Afrodite (Sugaro edizioni 1971). La raccolta che comprende incisioni, eliografie ed eliotipie è divisa in undici sezioni, l’ultima delle quali ospita alcuni degli ex libris. Il giardino di Afrodite descrive intriganti scenette con protagoniste fanciulle disinibite per le quali il sesso è declinato solo in una dimensione giocosa. Donnine vestite in abiti succinti, drappeggiati da trine e merletti, con aperture indiscrete che mettono in evidenza le loro virtù umide e delicate, giocano insieme alle amiche su morbidi letti, circondate da tende di seta. Le immagini in bianco e nero, sontuose ed esuberanti, richiamano l’inglese Beardsley soprattutto in un certo gusto grottesco come nella sezione “Racconti al tavolo da toilette”. Qui tra cuscini e tappeti e decori una fanciulla incipriata e armata di frustino, offre le sue grazie a strani personaggi mascherati. Nell’immagini di Bayros prevale nettamente il contrasto tra il bianco e il nero che fa risaltare i corpi voluttuosi ritratti in pose lascive. Le ombreggiature e gli elementi floreali decorativi posti a cornice, riescono a imprimere un’atmosfera elitaria da Sogno di una notte di mezza estate.
Le donne, giovanissime, sono damine provocanti, disinibite, caratterizzate da alte parrucche vaporose e corpi voluttuosi. Le figurine sono a tratti adolescenziali, gender fluid, e nelle scene più articolate spiccano anche bambine dallo sguardo malizioso e un po’ perverso. Mentre cagnolini, cerbiatti e pavoni attori anch’essi del piacere, sono simboli di un orizzonte panico dove si esalta la fusione tra uomo e natura. In questi interni viennesi, che ricordano il lusso estetizzante di sale aristocratiche traboccanti di velluti, candelabri e applique Decò, personaggi ambigui, servette devote e padroncine capricciose giocano sulla scena di un settecento parigino libertino lasciando intravvedere giarrettiere, scarpine e candide cosce.
Nella sua bella introduzione all’opera, Alberto Arbasino richiama quell’atmosfera conturbante e incipriata con la sua prosa squisitamente barocca dove la metafora allude e disillude disegnando nuove prospettive “trionfo del fiocco e del ricciolo, apoteosi del boccolo, pirotecnia e bulimia del crisopazio e della paillette in un delirio psichedelico di wagnerismo miniaturizzato e di androginismo fosforescente ove si rimescolano Pierrots bouffanti e figlie del Reno pointilliste con Alì babà inghirlandato”.
Per comprendere davvero il significato delle opere di Bayros ci viene in aiuto Bayros stesso nell’opera Ex Libris in cui, rispondendo alla domanda che cosa volesse esprimere con le sue rappresentazioni scrive “l’ex libris non dovrebbe mai avere il carattere di un’illustrazione indipendente; le sue figure devono dare l’effetto di profili, la cornice deve dare al disegno solidità e forma. Per questa ragione, io uso anche le mie figure come ornamenti.” La sua arte, quindi, non può essere una riproduzione dal vero, ma è pura fantasia al potere. È evocazione, così “un’ampia sottoveste e una scarpa allacciata alta vengono disegnate per riempire la curva di un ornamento, e non dovrebbero in nessun caso essere viste come la copia fedele di una penosa realtà”.
Tutto qui è un simbolo, un gioco esclusivo, un intrecciarsi di corpi che si uniscono o si dimenano in preda al piacere. Le schiene incurvate e le membra, ripiegate su se stesse, formano quasi una nicchia al centro come a voler proteggere il mistero che si cela sotto quell’apparente voluttà. Le linee dei corpi, delicate e sinuose, addolciscono quei boudoirs popolati da elementi decorativi sovrabbondanti ed eccentrici tra i quali si intravedono forme falliche zoomorfe e verghe per l’autoerotismo. Insomma un eros a tratti disincantato, a tratti sublimizzato, immaginifico ma che non riesce mai a scadere nel triviale. Quello di Bayros è un mondo irreale sospeso tra un baccanale di tardo impero, suggestioni neo rococò e un tocco di Alphonse Mucha.
Bartsch nell’introduzione del 1921, sostiene che “Bayros è come il simbolo dell’Europa morente che si sbrana da sola”. In realtà è soprattutto un razionale osservatore dei recessi occulti del desiderio e riporta in immagini gli studi freudiani su Eros e Thanatos. Anche nelle rappresentazioni più cupe, non cerca De Sade. Piuttosto, dotato di grande raffinatezza formale e di profonda cultura, si eleva rispetto alla massa mantenendosi fedele al suo stile anche davanti all’impetuoso mutare degli eventi e alla tempesta delle avanguardie.
Ilaria Cerioli