Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Il mare brucia. Intervista a Cinzia Colazzo

Home / L'intervista / Il mare brucia. Intervista a Cinzia Colazzo

Cinzia Colazzo è nata nel febbraio del ‘76. Ha studiato filosofia e musica. È vissuta in Salento, Liguria e Toscana, in Francia e in Germania. Ha lavorato come pianista accompagnatore, traduttrice, insegnante di italiano all’estero, venditrice di pianoforti Bechstein e pedagogista. Negli anni 2004, 2006 e 2017 sono nati i suoi figli. Ha pubblicato i primi brani in prosa e in versi nella raccolta Risplendi forte (Raum Italic, Berlino, 2015); sue poesie in italiano e in tedesco sono apparse su minima&moralia; alcuni componimenti sono stati premiati in concorsi nazionali; numerosi articoli, interviste e commenti sono usciti in Italia e in Germania. Nel 2023 Italic Pequod ha pubblicato la sua silloge Il mare brucia.

Mario Schiavone

 

#

Sei un poeta, con alcune pubblicazioni all’attivo e una costante ricerca poetica che accompagna i tuoi giorni: quanta oralità finisce nelle tue storie, quanta vita vissuta non scritta – pur di darti all’istinto poetico – resta fuori?

Sull’oralità sono stati scritti interessanti saggi, è un tema complesso e qui mi limito a dire che la mia silloge Il mare brucia, prima di attaccare la ‘Ouverture’, apre con un adagio popolare: Vale più un pantalone strappato di una veste di seta, rubato a un’amica che mi parlava al telefono. Due immagini accostate lucidamente, il maschile di scarso valore e il femminile pregiato, con il primo che è comunque tenuto in maggiore considerazione. Detti e proverbi tramandati sono binari di saggezza accumulata nel tempo e nelle circostanze lungo cui facciamo scorrere il nostro giudizio sui fatti. Prendiamo in prestito queste formulazioni senza preoccuparci di attribuirle a un autore – l’oralità non è legata al culto della persona o della proprietà intellettuale – o di falsificarle. Molte volte esse salvano dal rischio di esporsi direttamente con un commento personale, che trasliamo. La schiettezza popolare lavora con le immagini. Stessa operazione compie l’attivista poeta Grace Paley con la poesia Suppertime:

Il padre chiede il sale

tre donne si alzano la madre

la nonna la zia c’è

solo una saliera che

ci vuoi fare

La bambina continua a mangiare è

interessata al problema

vince ogni giorno una donna diversa

[…]*

In qualche modo, saggezza popolare e poesia intersecano l’universale, indagano variabili per cercare costanti. Se la poesia non è una lamentazione, o una serratura che distingue, cela, separa, può servire da strumento di formulazione che offre un prestito di parole. Tuttavia, non tutto il vissuto diventa formulazione poetica. Il/la poeta avvertono il momento della rivelazione, l’ingresso luminoso e tagliente dell’insight, che va comunicato con urgenza ai conviventi umani. L’insight può cogliere in qualsiasi momento di “apertura”, ma specialmente nello stato di bisogno. Si dice (v. sopra a proposito di saggezza popolare) che la sazietà non capisce la fame, sottintendendo che solo nella fame si ha un allargamento della comprensione, sia verso la sofferenza degli altri, sia verso ciò che nutre. L’autore della Ballata dello scarafaggio spiega così: “Io scrivo poesie quando non ho soldi. Significa che scrivo per combattere la mia povertà e miseria. A dire il vero, quando non ho soldi, inizio a pensare a importanti questioni politiche ovunque nel mondo”**. Non tutto il vissuto va scritto, e sarebbe meglio non passare la maggior parte del giorno e della notte scrivendo: la scrittura consuma tempo, ma anche la vita (soprattutto quella spicciola) ne richiede tanto. Lo stesso autore, o il suo alter ego, nella già citata Ballata, viene colpito con un piatto dalla moglie Izabela che protesta contro la sua inettitudine nel mantenere la famiglia. Lui è un incompreso, ovviamente. Ma lei no? I due rappresentano le pulsioni in conflitto: da una parte la vita meditativa che nutre lo spirito, dall’altra la vita attiva che rifocilla la vita. Quando incontro un letterato che, senza neanche ascoltare più quello che gli si dice, taglia corto commentando “L’ha già detto Conrad”, cerco vendette. Se prova ad accennare nostalgicamente ai carciofi della nonna, rispondo seccamente: Le mani per cucinarli le hai. I carciofi “letterari”, cioè quelli della memoria, della sineddoche, sono meno prosaici di quelli con le spine, ma io non ho niente in contrario alla loro compenetrazione.

La vita della scrittura è decisamente famelica.

Va benissimo lasciare fuori dalla scrittura la maggior parte dei propri pensieri (anche quando si scrive un diario).

Il poeta è un distillatore.

Ammesso che esista – concretamente – una definizione utile di poesia universale, che valore dai alle poesie che leggi e scrivi?

Uno dei temi legati alla scrittura è la spinta all’autoaffermazione. In piccole dosi è addirittura necessaria, come la scintilla per l’accensione del motore. Così è stato per l’avvio della stesura de Il mare brucia, edita, e di Luce al neon, ancora inedita. Non avevo soldi, avevo tempo, ero finita in isolamento nella mia vita di madre italiana scartata, per giunta cervello di ritorno (a proposito di sineddoche: come se di una persona potesse rientrare solo il cervello e lo Stato lo succhiasse dalle ossa del cranio, tralasciando di considerare il resto del corpo e della sua esistenza, la sua espansione avvenuta altrove), quindi ho cominciato a scrivere terzine in cui concentravo il mio pensiero, quasi non concedendomi di allargarmi. La misura della mia vita dettava la misura della poesia. Scrivevo sul piccolo schermo del cellulare mentre preparavo il caffè, anticipando sempre di più la sveglia, e scoprendo che il lungo passaggio dalla notte al mattino era l’orario in cui il mondo taceva e io potevo tirare fuori la voce. Contemporaneamente, nel semivuoto della provincia italiana, ricucivo il rapporto con la lingua, dopo quindici anni di contaminazioni alemanne, orecchiavo lemmi poco frequentati (‘frescheggiare’, ‘tramenare’), riprendevo confidenza con “la mia gente”, con i miei venti di mare. Tutto questo andava espresso, e quelle prime ore, dalle 4.30 alle 7.30, sempre con il rischio di portare il bambino tardi all’asilo – e dopo a scuola -, erano usate con una fame di parole che non avevo previsto. Le parole mi davano lo spazio di relazione che nel mio isolamento, anche economico, non avevo, e una legittimazione rispetto al tempo a mia disposizione, in uno scivoloso equilibrio con gli obblighi della vita pratica. Una cosa commovente! Parlare con le parole. E quelle rispondevano, rispondevano sempre! Superato il punto di rottura, le parole, talvolta le singole Lettere, come entità autonome e significanti, arrivavano a cascata, di notte, nei sogni, nelle visioni, nel delirio.

Concludendo, anzi, riducendo, se mi viene chiesto qualcosa sulla ‘poesia universale’, posso dire questo e nulla più (tendo a affermare solo cose che ho conosciuto con il corpo): esiste una Fonte universale, alimentata da un lavoro collettivo, a cui, per destino e per esercizio, è possibile attaccarsi, stupendosi della sua costante disponibilità, della sua costante richiesta di fedeltà (e che deserto, che sete – e anche questo è un tema forte – quando la fonte si esaurisce!). Maria Luisa Spaziani lo scrive molto bene:

Impunemente credi di gettare / sulla carta una parola qualsiasi. / Scrivi luna, semantica, pantofola, / così, per scaldare la mano.

E ti illudi di andartene, lasciare / al suo destino quello sgorbio nero. / Eh, no. Ti chiama indietro, ti costringe / a cercare una forma, a continuare.

[…]***

Io sono anche pianista classica e posso affermare con sicurezza che, come il pezzo ben eseguito risulta facile all’ascoltatore anche se si tratta di una composizione virtuosistica, se l’esecutore lo padroneggia assolutamente, così la poesia ben composta risulta al lettore immediatamente comprensibile – perlomeno la poesia lirica: per la poesia di ricerca valgono altri criteri e altri lettori. Sono due processi distinti, l’esecuzione e la composizione, eppure è proprio l’esecuzione la prova del nove della composizione. La poesia andrebbe letta e ascoltata, dovrebbe superare vari crash-test. Per questo il poeta ad un certo punto rompe l’isolamento e comincia a distribuire le sue fotocopie e i suoi file.

Il mio orecchio “interno” è particolarmente sensibile a richiami e rimandi nel flusso di suoni a livello di sillaba e di fonema: ci lavoro molto. Talvolta mi è stato detto che la rima è passata di moda, come la forma. Ma la forma è già contenuto, e la libertà della forma pure. L’allitterazione è già messaggio. Il cambio di metro è già intenzione. Il contenimento dell’endecasillabo forza il contenuto all’esattezza. Tornando a citare Grace Paley: la torta avrà comunque una forma.

Quali sono i poeti classici da cui non vorresti mai separarti?

Non so cosa si intenda per poeti classici – per me Jolanda Insana è già “un classico”. So quali sono i poeti della mia formazione: Montale, Caproni (anche per gli anni vissuti a Genova, e ora a Livorno); e della mia ricerca personale. So con quali poeti “vado sul sicuro”. Ricordo ancora con quale felicità ho letto Petrarca da ragazzina. Conosco la curiosità “tecnica” con cui leggo poesie esistenzialiste tedesche e le traduco per mio uso; o poesie di Frost e Glück cercando puntiformi traduzioni alternative. Non amo le antologie: voglio immergermi nel discorso compiuto, nella relazione che quello specifico timbro apre in me, a distanza di secoli, decenni, mesi (la poesia tende ad appiattire il tempo).

Che rapporto hai con l’arte e la filosofia? E quali sono i tuoi autori preferiti di queste due branche culturali?

I miei autori preferiti nell’arte e nella filosofia sono i poeti che mettono in parola la musica, la plasticità, il sogno del cinema, il senso della vita, il senso della nostra presenza nel tempo e oltre il tempo.

Ogni performer della parola immagina un lettore ideale. O forse no. Per te esiste? Se sì, il tuo lettore ideale come è fatto?

So che esiste una donna che non ha mai letto poesia, e che mi leggerà, e che capirà che “si può”.

Come impieghi il tempo quotidiano dedicato ai tuoi interventi poetici scritt?

Mangiando quintali di noccioline.

Quale poesia non scriveresti mai?

Una poesia contro la vita. I poeti che si sono suicidati hanno sempre gettato nel vuoto di pubblico un grido d’amore incompreso per la vita e per se stessi, una scheggia di Spirito nel corpo corrotto della storia. Il problema non è la vita, ma il mondo che non è fatto per i tipi sensibili. Bisogna accettare l’esclusione e resistere, con la consapevolezza “politica” di rappresentare una minoranza. E quanto è più tonante una poesia che viene da una voce oppressa! Quanto decadente una poesia di maniera, di filiera.

Questo è un mondo dove sembra – ad oggi – aver vinto l’immagine, a discapito della parola scritta. Eppure c’è chi resiste. Ti andrebbe di dirci perché scrivi in versi?

Non vedo alcuna opposizione, alcuna concorrenza. I mezzi a disposizione sono tanti, ognuno fa un percorso per capire a quale rubinetto attingere. Il rubinetto migliore è sempre il dolore, per un ‘errore esatto’ di programmazione. Se invece parliamo di soldi, riconoscimento, possibilità di mantenersi vendendo la propria arte, questo è un problema comune a pittori, fumettisti, compositori, registi come a poeti. Il problema che ne discende è che per immergere il “prodotto” nella corrente frastornante con cui si prova a stare a galla (interventi, presentazioni, premi, reel e feed), si rischia di perdere aderenza alla propria voce intima. L’immagine ha vinto solo nell’industria dell’entertainment. Per quanto riguarda gli adolescenti, sono spugne culturali in accumulazione: per ora assorbono, partecipano, si bagnano nei nuovi flussi, ma non si può ancora dire cosa ne verrà fuori, artisticamente. Non credo che rimarremo muti. Tutti i bambini del mondo si addormentano ancora nella culla della voce umana. Quando stiamo male, facciamo una telefonata perché qualcuno ci racconti una storia diversa dalla nostra. Cerchiamo la voce umana come cerchiamo la parola scritta che richiama alla presenza: leggimi. Siamo intristiti per il vuoto di lettere nella cassetta della posta, infastiditi dalle bollette smart. Sappiamo con certezza che domani saremo catturati dal display pubblicitario nella stazione, e che qualcuno ci manderà una faccetta con i cuoricini anziché scrivere “non ti scordar di me”. Per cui, il poeta ha ampi “vuoti di mercato” da riempire. Ciò che vedo non è lo spazio che l’immagine ha rubato, ma la prateria di parola esatta, parola-messaggio tutta da seminare.

* Grace Paley, Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, Sur 2022

** Shpëtim Selmani, Ballata dello scarafaggio, Crocetti editore 2023

*** Maria Luisa Spaziani, La luna è già alta, Mondadori 2006

Click to listen highlighted text!