Il clan dei ricciai è una sorta di popolo di ex galeotti emarginati dalla società, da sabotatori a sabotati, che nei mesi freddi che finiscono per -embre si immergono nei mari di Cagliari per la raccolta subacquea dei ricci di mare, unica prospettiva che consente al gruppo la sopravvivenza. Pietro Mereu ci introduce attraverso gli squarci di Cagliari e i suoi quartieri popolari come “Castello” alle storie della criminalità locale; macchine incendiate, azioni estreme di autolesionismo, e il mondo sotterraneo dei tatuaggi rudimentali realizzati nelle carceri dai detenuti per manifestare il proprio status, il disagio e l’auto-punizione, come cicatrici dell’anima. Pietro Mereu restituisce la voce ai suoi protagonisti “i ricciai”, gli ultimi, i rifiutati per dare loro una possibilità al così ambito riscatto sociale, con la melodia di Joe Perrino in sottofondo che ci accompagna nel racconto della Malavita.
Paola Fiorido
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Di seguito l’intervista a Pietro Mereu, autore del docufilm Il clan dei ricciai
Come hai scoperto il clan dei ricciai e come sei riuscito a entrare nella loro realtà, ottenendo la loro fiducia e inserendoti così in profondità nelle loro vite?
Nel 2013 girai come attore un film a Cagliari, facevo la parte di un piccolo spacciatore della mala cagliaritana, Carmine. Giravamo all’interno di una darsena gestita da un gruppo di ricciai cagliaritani. Mi venne subito voglia di approfondire le loro vite, magari girare un documentario su di loro. Inizialmente pensai a una docuserie, che proposi a Dmax, non venne accettato. Qualche mese più tardi venni contattato da Nicolas Vaporidis, che aveva appena aperto la sua casa di produzione, voleva produrlo. Io di solito sono molto empatico, riesco a immedesimarmi nelle storie che racconto, in quesito caso le loro vite, senza giudizio.
Chi sono i tuoi maestri?
Ho avuto la fortuna di cominciare a lavorare in un produzione tv di Piero Chiambretti, un vero autore oltreché conduttore. Abituato al gioco di squadra. Per quanto riguarda il cinema adoro Sergio Leone, Martin Scorsese, Matteo Garrone. Per i documentari mi ispiro a Werner Herzog. Non saprei dire con esattezza chi siano davvero i miei maestri. Forse sono troppi, e non solo nel cinema ma anche nell’arte, e nella letteratura. Credo che la letteratura per me sia stata molto più formativa del cinema, anche perché il mio approccio è sempre partire da una storia. Successivamente si pensa a girarla.
Cosa ti ricordi della tua infanzia in Sardegna?
Io vengo dall’Ogliastra, una zona molto isolata e selvaggia dell’isola, una zona con una natura strepitosa, sono nato a Lanusei ma d’estate ci trasferivamo in una casa di famiglia a Santa Maria Navarrese, sulla spiaggia. Ho avuto una bellissima infanzia, con dei genitori che mi hanno amato molto, una madre, appena scomparsa, che mi ha trasmesso il dono della curiosità, insegnandomi ad amare i libri sin da piccolissimo. Ma il mio ricordo più fulgido della mia infanzia è il Supramonte, sul quale da bambino rimanevo incantato a osservare cavalli, capre, maiali e pecore allo stato brado. Questo è stato un dono.
Da dove parti per sviluppare un progetto, un documentario, un film?
Nella mia testa nascono ogni giorno delle idee per un documentario, le ispirazioni possono essere ovunque, intorno a noi. Poi è necessario soffermarsi, solo dopo un’analisi di fattibilità, capisci se sia possibile trasformare quell’ispirazione in un progetto concreto. Per esempio qualche mese fa conobbi un vecchio che chiedeva l’elemosina, notai un tatuaggio da carcerato nella sua mano, e gli chiesi se aveva voglia di raccontarmi la sua storia. Dopo aver parlato più di un’ora, gli chiesi se si fidasse di me, lui guardandomi negli occhi mi disse «Sei una persona leale, si vede». Una settimana dopo andammo a pranzo insieme, e qualche settimana dopo girai una clip per capire la potenzialità. Appena finirà questa assurda pandemia, mi piacerebbe raccontare la sua storia.
Un piatto tipico della tua terra a cui non puoi rinunciare.
I culurgiones, un raviolo chiuso a mano, con dentro patate e formaggio. Anni fa feci anche una web serie dal titolo Culurgiones Mon Amour dove mia madre mostrava la ricetta.
Raccontaci un aneddoto del tuo percorso lavorativo che ti ha segnato e che porterai sempre con te.
Quando da assistente di produzione Chiambretti mi diede la possibilità di scrivere le battute di Lubamba e vederle riportate da lei in tv fu una grande soddisfazione. Un’altra fu vedere mio padre commuoversi a teatro tra gli applausi per un mio lavoro, nel mio paese.
Da autore televisivo a emarginato per il tuo documentario Disoccupato in affitto, per poi affermarti come regista di documentari tra cui Il club dei centenari e I manager di Dio, quanto i momenti difficili ti sono serviti per formare la tua professionalità?
Io sono una sorta di ricercatore, ho lavorato molto spesso a progetti che sentivo pienamente miei, ma per mangiare ho dovuto, in alcuni casi, scendere a dei compromessi e lavorare a cose molto più commerciali e “appetibili”. Ma non rinnego nulla, anche la parte commerciale va curata, ora vediamo come in alcune piattaforme ci sono molti prodotti di nicchia ma con un appeal più fruibile. Dico sempre che Netflix ha avuto il merito di sdoganare le nicchie. Quando feci Disoccupato in affitto, stavo per mollare, ero vicino alla resa. Invece proprio quella follia mi fece capire che per fare un grande progetto non è necessario avere tanti soldi, ma grandi idee. Se fosse tutto facile, non ci sarebbe gusto, le difficoltà temprano e selezionano.
La musica ha sempre avuto un ruolo nella tua vita artistica come affronti la ricerca delle colonne sonore dei tuoi film?
In Disoccupato in affitto ho usato la musica di Davide Combusti, The Niro, un amico. In un documentario sull’alluvione di Olbia ho avuto una canzone scritta da Mogol. Diciamo che un autore deve fare una ricerca e poi eventualmente interfacciarsi con un compositore, come feci con Stefano Guzzetti per Il club dei centenari, che compose della musica dopo che capì quale voleva essere la mi intenzione.
Ci sono delle persone che vorresti ringraziare?
Ringrazio i miei genitori, i miei fratelli, gli amici più cari e tutti quelli che in un modo o in un altro mi hanno aiutato nel mio percorso.
Intervista a cura di Paola Fiorido
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Il clan dei ricciai
Il docufilm di Pietro Mereu
Anno di produzione: 2018
Durata: 70 minuti
Formato originale: Full HD
Soggetto: Pietro Mereu
Sceneggiatura: Pietro Mereu
Fotografia: Matteo De Martini
Montaggio: Giacomo De Biase, Andrea Lotta
Musica: Joe Perrino
Interpreti: Gesuino Banchero, Massimo Senis, Andrea Venturi, Bruno Banchero, Simone Mattana
Produzione: Drive Production Company
Pietro Mereu (Lanusei, 1972) si è diplomato in sceneggiatura presso la Scuola Civica di Cinema Tv e Nuovi Media di Milano. Assistente di produzione e autore televisivo presso La7, Magnolia, All Music, Mediaset per diversi anni, nel 2010 ha ideato e scritto il film documentario Disoccupato in affitto di cui è protagonista, vincendo vari premi nazionali. Come regista indipendente ha lavorato a molti progetti, tra cui il reportage La Grecia è qui, lettera dalla Sardegna, e progetti indipendenti per cause sociali come Etic art e Noi non molliamo – Facce e storie dell’alluvione. Nel 2015 gira Il club dei centenari, sulla longevità degli abitanti della Sardegna, prodotto dalla sua casa di produzione ILEX, che vince nel 2017 il Premio AAMOD al Babel Film Festival di Cagliari e nel 2018 il Premio del Pubblico a Sguardi Altrove Film Festival di Milano. Il clan dei ricciai, prodotto dalla Drive Production Company di Nicolas Vaporidis, Matteo Branciamore e Primo Reggiani, ha superato nel 2018 la prima selezione del Premio David di Donatello. Attualmente sta lavorando a vari progetti in Italia, Colombia e Caucaso.