È uscita in questi giorni la prima “traduzione” dell’opera Poema della fine di Vasilisk Gnedov, a cura del poeta Mattia Tarantino. È stata distribuita in 100 copie il giorno stesso del lancio, in allegato a Menabò, rivista quadrimestrale di cultura poetica e letteraria edita da Terra d’ulivi edizioni.
Apri il libro e dentro ci sono i dati di stampa, due pagine bianche, una biografia di Gnedov e la quarta di copertina dove viene spiegato il senso dell’operazione e dell’opera che non presenta parole ma il senso sta proprio in questo, in uno spazio definito che in potenza può contenere il Tutto. Si legge a riguardo nella “quarta di copertina”:
Il poema della fine è apparso per la prima volta nella raccolta Смерть Искусству (Morte all’Arte), del 1913. Pare che, nello stesso anno, Gnedov ne abbia anche dato una lettura pubblica. Questo foglio controverso è, forse, il segno di una delle ricerche più radicali nel discorso poetico. Non si tratta di un’immagine del silenzio, di ciò che rimane dopo la parola, ma della testimonianza di quanto questo campo di tensioni in divenire che chiamiamo “lingua” venga alla luce solo dissolvendosi nelle possibilità delle proprie combinazioni. Se, per i futuristi, è possibile solo la traduzione letterale della poesia, allora è doveroso restituire questa energia potenziale e destinale alla radice della parola con una vera e propria equivalenza: foglio bianco a foglio bianco.
In sostanza nel 1913 Vasilisk Gnedov (ai margini del movimento futurista proprio perché fin troppo radicale persino per Khlebnikov di cui era comunque amico) pubblica una raccolta dal titolo Morte all’arte. Si tratta di un pamphlet di 15 poesie. Tra queste, una è una pagina bianca con scritto, al centro “šiš” (e cioè “niente, meno di zero”); un’altra, la penultima, una pagina con scritte solamente prima e ultima lettera dell’alfabeto cirillico – e così via. All’interno del pamphlet appare poi il Poema della fine. Una sola pagina bianca. Di questa pagina esistono alcune interpretazioni, alcune letture pubbliche, ma tutte sono fatte da silenzio.
Interpello il poeta Mattia Tarantino che spiega: «Io credo che Gnedov abbia trovato la radice, e cioè abbia compreso quanto, questo campo di tensioni in divenire che chiamiamo “lingua” esista solamente dissolvendosi nelle proprie possibilità di combinazione. Abbia trovato, forse, l’energia potenziale e destinale alla radice di ogni parola e del suo ordine interno. In altre parole, ha scritto potenzialmente ogni cosa – o potenzialmente nulla. E io ho tradotto questa linea, esile, tra Tutto e Nulla; questo buco di potenza, questa energia che rende la poesia “dimora del possibile” (come direbbe Roland Barthes)».
Sto pensando al Tutto-Nulla. Dove sta il punto?
«Il punto è questo: gli ordini del linguaggio, secondo Nancy, si dividono in due categorie: ordine della precisione e ordine dell’esattezza. Il primo è quello della prosa, del discorso quotidiano, che è sempre approssimabile per eccesso o per difetto. Il secondo è quello della poesia: ogni parola non vuole dire altro che se stessa (la poesia è, per paradosso, anti-metaforica), ma in tutta la propria pienezza. Cioè: se scriviamo in un verso “fuoco” intendiamo tutto ciò che questo è stato o sarebbe potuto essere; che è o potrebbe essere; che sarà o che potrebbe essere. Io credo che Gnedov, in questa pagina bianca, abbia incluso (perché certo, non vi è nessuna parola, ma è pur sempre una pagina, uno spazio definito) ogni suono che, per l’appunto è stato o sarebbe potuto essere; che è o potrebbe essere; che sarà o che potrebbe essere.»
Ciò che è stato, che è, che potrebbe essere, questo il senso del Tutto-Nulla e di quel foglio bianco che Mattia Tarantino con un autentico atto poetico ha “tradotto” in un gesto futurista all’insegna di tutte le molteplici combinazioni possibili.
Nota: Gnedov, lo ricordano in pochi, è stato anni e anni in un Gulag. Venne rilasciato solo nel 1956 e da allora, fino alla sua morte (nel ’78) non pubblicarono più le sue opere.
Silvia Castellani