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Il problema

Tityus, José de Ribera, 1632

All’alba dei quarantaquattro anni mi considero un uomo forte.

Ho vissuto molto e, sfogliando all’indietro le pagine del diario della mia vita, scopro che non son certo pochi i capitoli relativi ad esperienze dure o dolorose che hanno formato il mio carattere e le mie scelte.

Ho frequentato le tipologie umane più variopinte: zingari, delinquenti, matti, cocainomani, ubriaconi, uomini appena usciti dal carcere con occhi opachi ed inespressivi ed altri pronti ad entrarci con occhi furbi ed inconsapevoli, truffatori e moralisti (che poi son la stessa cosa), gente ignorante e gente colta per poi scoprire la saggezza nelle parole insicure di un contadino e l’idiozia in quelle altiloquenti di un intellettuale dalla pelle opalescente.

Ho amici che si sono ammazzati, altri che si sono schiantati, altri che si sono ritirati, altri fuggiti, altri fuorigioco per le droghe ed altri che ce l’han fatta.

Ho fatto lavori assurdi, ho lavorato per mesi con i carrelli elevatori muovendo contenitori marittimi da dodici metri e semirimorchi senza assicurazione o assistenza medica, ho lavorato come commerciale per l’espansione in Spagna di una nota catena di abbigliamento Italiana traducendo contratti di affitto e compravendita di immobili da duemila a settemila metri quadrati; ho seguito i lavori di costruzione di un negozio da seimila metri quadrati con problemi di conformazione del terreno ed una falda acquifera altissima, ho lavorato come commerciale e come recruter. Ad un certo punto ho anche studiato per diventare assicuratore per poi rendermi conto che era un titolo che la burocrazia non mi avrebbe lasciato spendere. Ho tradotto documenti legali, testi curatoriali e-mail per terze persone riuscendo a propormi come interprete in più occasioni.

Ho addestrato cani da lavoro e li ho portati a gareggiare in varie discipline, ho fatto MMA, Boxe, Kick Boxing ed ultimamente Muay Thai finché le mani hanno iniziato ad irrigidirsi, a bloccarsi la sera, e non riuscire più a riaprirle.

Son salito sul ring non so più quante volte e non ho contato neppure le volte in cui non volevo più scendere, portando il corpo allo sfinimento. Una delle ultime volte ho contato diciannove sparring di tre minuti con un solo minuto di ripresa.

Ho preso un sacco di botte ed un sacco ne ho tirate.

Ho montato un cavallo da salto spettacolare che é stato il mio sogno distrutto dall’idiozia di un lockdown assurdo e mal gestito e per il quale non esiste perdono. Con lui ho saltato a metro e trenta, ho galoppato attraverso i campi e le montagne di mezza Catalunya. Son caduto, mi sono rialzato perché in sella é dove dovevo stare. Il giorno in cui hanno riaperto le gabbie l’ho ritrovato con due tendini dell’arto anteriore gravemente lesi; lui nervoso e triste. Quel giorno non lo dimenticherò mai, il mio cavallo, un animale che mi ha dato ed insegnato di più che la maggior parte delle persone che ho conosciuto nella vita, ridotto ad un paraplegico. Lui, perennemente sincronizzato sulla mia frequenza cardiaca; lui, che quando intravedeva con la coda dell’occhio un oxer o un verticale, s’infuocava incendiandomi il cuore.

Quando lo vado a trovare e lo guardo so che torneremo a galoppare insieme, in un’altra vita spero perché in questa non sarà più possibile.

Sono stato tradito un numero incalcolabile di volte, o meglio, é stata tradita l’amicizia, la fiducia, il rispetto, l’amore. Mi son tradito, e forse questo é molto peggio, lo stesso numero incalcolabile di volte solo per piacere o compiacere.

Ho tradito i miei sogni, i miei amori, i miei desideri. Per poi lasciare tutto proprio per non ricadere in quel tradimento che scava a badilate, dentro al cervello ed al cuore, una fossa dove gettare i desideri ormai vilipesi e spogliati di tutto.

Ho vissuto tutto questo, ho imparato a resistere a tutto, e nonostante tutto ad andare avanti.

A muso duro.

Eppure c’é una cosa che ancora mi tormenta e mi rende fragile, si chiama arte.

Quella che faccio e quella che vedo.

Quella che faccio perché scaturisce direttamente dalla necessità del desiderio e vorrei che fosse protetta, quella che vedo perché é dove il desiderio si nutre.

Éd per questa ragione che per me l’arte é sempre stata un imperativo categorico. Non deve esserci compromesso. Mai.

Vacillo.

Vacillo quando il prodotto del mio desiderio non viene accolto perché mi fa sentire solo, sbagliato; vacillo quando in ciò che vedo non trovo nutrimento perché il mio desiderio ne soffre.

Mi chiedo se sono io il problema.

Scrollo le immagini di Instagram tutte misteriosamente uguali, perfette, le opere generalmente inserite in contesti meravigliosi

Sono io il problema?”

Visito mostre che mi lasciano vuoto e disorientato

Sono io il problema?”

Entro negli studi dei miei colleghi, non ho niente da dire, non hanno nulla da darmi

Sono io il problema?”

Tutto mi sembra come nei Reels dei chitarristi che si impegnano in assoli mostruosamente tecnici tanto da essere mostruosamente inutili. Il virtuosismo vocale di bambini prodigio, i genitori piangono, la giuria pure.

Un pianista suona Rachmaninov così velocemente da darmi le nausea, l’ennesimo giornalista musicofilo giustifica l’orrore prodotto dall’esondazione tecnica con la biografia. A cosa servono tante parole?

Mi chiudo in studio dopo una seduta elettrica di musica a tutto volume per dimenticarmi l’ennesima roba senza senso di un suddetto artista, critico, ballerino di tip tap o buffone acclamato dalla critica, sempre la solita critica da salottino milanese (romano, berlinese, bulgaro o burundese).

Mi imbottisco di musica, mi stono fino a che non sento più nulla ed i miei occhi si concentrano solo su quello che hanno davanti. Ho bisogno di sentire pulsare le tempie. Dipingo, distruggo, dipingo. La mia vita é lì che balla con il Diavolo per salvarsi. Guardo quello che ho fatto. Amo quel che ho fatto… difettoso e sghembo come sono io… sono io.

Apro la cler dello studio e guardo fuori il cielo azzurro:

Sono davvero io il problema?”

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