Nicola Sacco nasce nel 1974 nelle Puglie, dove vive e lavora. Laureatosi in Economia e Commercio, sceglie di manipolare le parole piuttosto che i registri contabili di qualche azienda ed è così che arriva, nel 2007, alla pubblicazione dei suoi “Racconti a vita Bassa” per Quarup Editrice. Per mantenersi nella vita inanella lavori come operaio in fabbrica, addetto vendita nella grande distribuzione, call center, pompa di benzina (il lavoro più bello della sua vita, dice). Dal 2013 al 2020 svolge il ruolo di Portavoce del Sindaco di Modugno (Ba). Insomma, mette insieme più che un curriculum vitae un trattato sulla confusione mentale. Dal 2021 si occupa, coscienziosamente, di gare e appalti per il Politecnico di Bari. Nel frattempo appaiono suoi nuovi racconti sulle riviste letterarie on line Neutopia, Waste, Quaerere, Morel-Voci dall’Isola. Narrazioni brevi pubblicate anche per L’immaginazione e Sagarana.
#
Sei un valido autore di racconti, e – ovviamente – un grande lettore della realtà e dei libri su cui ti sei formato, eppure sono pochi i lettori che ti conoscono (almeno per ora): secondo te, che sei a mio avviso un esordiente dal talento riconoscibile, gli editori di ricerca letteraria potevano accoglierti meglio?
Prima di tutto, lascia che ti ringrazi per questa iniziativa che hai voluto prendere di intervistare me e proprio me. Trovo che sia un’idea assolutamente non banale e anzi alquanto folle visto che ti rivolgi a uno che ha pubblicato un libro nel 2007 e poi più niente. Dal punto di vista editoriale, il silenzio, il deserto; Nicola Sacco, se vogliamo, non esiste. Eppure. Mi viene da pensare che non deve essere un territorio così desertico quello in cui me ne vado pasturando, se siamo qui oggi io e te a parlare di me come scrittore di racconti. Evidentemente qualcosa, nella mia vicenda narrativa, non solo è andato storto ma anche è andato per il verso giusto. Racconti a vita bassa è arrivato nelle tue mani e ha fatto il suo sporco lavoro, ancora una volta, e a ben sedici anni dalla sua venuta al mondo. E che vuoi di più da un libro, per giunta di un esordiente? È una soddisfazione o no? Siamo a livelli di long seller, no? Almeno se intendiamo per long seller un libro che, di base, non finisce di dire quel che ha da dire nel giro di poco. Ma non voglio eludere la tua domanda e sul punto sarò netto: No, non ho alcunché da rimproverare agli editori. Sono io che dopo RAVB non ho martellato abbastanza, sono io che non mi sono proposto, sono io che, pur avendo continuato a scrivere, non ho concretizzato magari decidendomi a mettere un punto alle mie storie, a smettere di riscriverle.
Editori no brutti, per la limitata esperienza che ne ho. È mio costume tenermi stretto ai fatti, perciò non posso accodarmi alle critiche al sistema editoriale basandomi sul sentito dire. Del resto, vale per gli editori il discorso fatto per il libro: uno ne ho incontrato e quello mi ha accolto, Alessandro Agus di Quarup. Lo ha fatto credendoci al punto da inaugurare con me e con Fabrizia Pinna, dopo aver ricevuto i nostri rispettivi manoscritti, la collana Le impurità del bianco dedicata agli esordienti italiani. E questo è stato molto gratificante se penso alla vocazione originaria di Quarup, nata nel 2006 col progetto di dare lucentezza a perle seminascoste della letteratura statunitense e del Brasile urbano (in proposito, invito a leggere gli straordinari racconti di Caio Fernando Abreu riuniti sotto il titolo I draghi non conoscono il paradiso).
Quanto vissuto della vita quotidiana finisce nelle tue storie, quanto pensiero immaginato resta fuori dalla pagina scritta?
Se guardo a RAVB, libro che si può definire in senso oggettivo (cioè a prescindere dal giudizio di valore che se ne dà) “dalla spiccata voce autoriale”, rivivo la mia intenzione di metterci dentro tutto me stesso, con furia e scarsa propensione a sacrificare quel che mi passava per la testa. Sapevo che, perché potesse avere possibilità di riuscita, la mia operazione doveva però essere impastata di espressionismo e di un lavoro che caricava per intero sulla lingua la responsabilità di emozionare, urtare, squarciare, conoscere e ricreare le sue stesse storie. Un pandemonio, insomma, doveva essere ’sta la lingua. Oggi inevitabilmente le cose stanno in maniera diversa. Nei racconti apparsi di recente su alcune riviste letterarie on line, e in quelli che, pur non essendo apparsi, sempre vado scrivendo, la parte che resta fuori dalla pagina scritta ammonta anche al novanta per cento dell’immaginato, sacrificata sull’altare della economia del racconto. Questo il mio upgrade della teoria dell’iceberg (e certo non solo il mio): il racconto deve colpire duro, al bisogno fare finte di corpo e gioco di gambe, ma sempre gli impongo di chiudere il match con un knock-out, non tirarla in lungo per accontentarsi di vincere (o perdere) ai punti. Accumulo meno parole, rinuncio a slabbrature che persino mi piacciono, e attuo una feroce scrematura delle idee in favore di una maggiore compattezza del narrato.
I personaggi che fai vivere nei tuoi racconti parlano al lettore, attraverso una ritualità da sud antico, e con un linguaggio che ha forza evocativa. Ammesso che esista – concretamente – una definizione utile di personaggio letterario credibile, qual è il corpo narrante che da scrittore preferisci quando scrivi le tue storie?
Poiché credo sempre che le forti tonalità di colore, l’accento espressionistico, la visionarietà, la fermentazione della lingua, il suo uso percussivo/corrosivo facciano il mio stile, cerco di dosare tutti questi elementi in misura diversa rispetto al passato, facendoli risuonare meno nella voce dell’autore, di più in quella dei personaggi. Il pandemonio adesso è dentro di loro, ben compresso. Il mio lavoro consiste nel ficcarli in situazioni che provochino il disvelamento del loro nucleo incandescente e lo sbocco di questo pandemonio. In occasione di RAVB mi ero divertito a coniare la seguente formula poetica: la mia è cognazione d’affetti coi via di testa. Ecco, ancora oggi questo per me è dogma. Forse perché credo nel dogma della presenza di una quota via di testa in ogni singolo essere umano.
A questo punto non so se ho contribuito alla definizione di personaggio letterario ma credo di aver chiarito il mio modo di impiegarli, il quale, visto che tende a nascondere sempre di più l’autore, è anche un modo di rispettarli. Naturalmente non tutti i soggetti, le ambientazioni e le situazioni sono congeniali ai miei personaggi, ma devo selezionare accuratamente quel che fa al caso loro. E nel far questo mi ritrovo prevalentemente ad operare in un genere, o per meglio dire un’atmosfera, che oscilla bellamente tra due realismi, quello sporco e quello magico, più qualche immersione nel perturbante.
Quali sono gli autori classici da cui non vorresti mai separarti? Quali gli autori contemporanei viventi?
Visto che non me ne chiedi esplicitamente le ragioni, colgo la palla al balzo e mi limito a fare i nomi, anche perché sennò rendo una palla questa intervista: gli autori del Nuovo Testamento, Shakespeare, Dostoevskij, L.-F. Céline, Carver, Agota Kristof, Cormac McCarthy, Aldo Busi, Marosia Castaldi, Tommaso Di Ciaula, l’Abreu citato prima. La partizione classici/contemporanei mi viene difficile, forse solo i primi tre sono classici in purezza. Noto però che mi hai messo un paletto per me complicato da rispettare: i contemporanei viventi. E viventi ce n’è pochi nel mio elenco (uno, peraltro silente da un po’, e spero tanto che se la passi bene e che ci delizi presto con una nuova pubblicazione). Spendo solo due parole per il meno noto, Tommaso Di Ciaula, modugnese come me, il cui magnifico Tuta blu, uscito nel 1978 par la collana Franchi narratori di Feltrinelli, ha fatto letteralmente il giro del mondo per traduzioni all’estero, adattamenti teatrali e cinematografici. La mia scrittura gli deve molto. Scopritelo di nuovo, vi scongiuro.
Che rapporto hai con le serie tv, il cinema e i fumetti? E quali sono i tuoi autori preferiti di questi tre medium narrativi?
Flirto volentieri con serie tv e cinema. Sono a tutti gli effetti nutrimento fondamentale per chi scrive, ma purtroppo trovo che il cinema sia un’arte declinante e, per quanto mi riguarda, non sforna più niente di interessante. Osservo che se abbiamo voglia di andare al cinema, ci appelliamo alle vecchie glorie, preghiamo che un loro nuovo lavoro arrivi nelle sale, e però poi quando accade, sempre più spesso ne usciamo delusi. Per fortuna oggi abbiamo facile accesso a tutto ciò che il cinema è stato, i suoi capolavori sono a portata di mano e quando voglio mi posso scofanare Scorsese, Coppola, fratelli Coen, De Palma, Eastwood, Jarmusch.
Le serie tv portano innovazione drammaturgica da studiare anche se quel loro essere (s)caricate a massa sulle piattaforme on demand, impone un tot di tempo dedicato al discernimento, visto che tutte, anche le porcherie, sono presentate come imperdibili. Citerò Mindhunter perché bisogna vedere come uno dei due detective arriva ad abbracciare il serial killer Edmund Kemper, After Life per i sensazionali personaggi via di testa costruiti attorno a un protagonista melodrammatico, True Detective per come sviluppa quel suo manifesto artistico di cinque parole: Time is a flat circle.
Fumetti, sarà certo un mio limite, non li bazzico.
Ogni scrittore immagina un lettore ideale. O forse no. Per te esiste? Se sì, il tuo lettore ideale come è fatto?
Il mio lettore ideale è quello che non mi chiede conto della violenza, della disperazione, dell’ambiguità e, perché no, della cazzonaggine che intride le vite rappresentate nei miei scritti. Li accetta, invece, come si accetta un dato di natura e quindi mi apprezza o mi critica per altro.
Come hai impiegato il tempo quotidiano dedicato alla scrittura delle tue storie? Voglio dire: pur non avendo pubblicato altro per gli editori, hai continuato a coltivare la passione della scrittura?
Continuo a scrivere, sicuro, e a concepire storie secondo il metodo che ho illustrato. Quello che mi fotte però è che non smetto mai di leggere, che lo faccio anche quando dovrei invece concentrarmi sulla pagina scritta o da scrivere. Tuttavia il mio orizzonte è sempre lo scrivere e se, poniamo, per una qualche ragione mi fosse negata per sempre la possibilità di farlo, mi sentirei così diminuito che potrei morirne. Perché? Non lo so, non ho ancora indagato su questo.
Quale tipo di storia, rubata al mondo reale, non scriveresti mai?
Se mi metti, anche qui, il paletto del “rubata al mondo reale” ti dico allora che non c’è limite alle storie che si possono rubare al mondo reale. Se invece togliamo quel paletto e mi chiedi di dire una storia che non scriverei mai in assoluto, bene, è del tipo di quelle che hanno la pretesa del messaggio edificante, l’obiettivo del risveglio delle coscienze, la letteratura impegnata, la postura moralistica, il racconto pedagogico, il romanzo a tesi, guarda, finanche la scrittura di denuncia, il cui presupposto è comunque la convinzione, più spesso la presunzione, di saper distinguere il bene dal male. Non nego che ci siano lavori ben fatti in questo ambito, forse più nella pubblicistica e nella saggistica, ma in narrativa il più delle volte mi pare che l’esito sia infelice per faziosità e violenza delle proposizioni che piegano a un andamento incriccato quello che dovrebbe essere il naturale svolgimento della storia, in un esercizio di ortopedia malsana oltre che malriposta. Non è questo il mio terreno, prediligo la laidezza, e sento che l’unico contributo che potrei dare al mondo è un sovrappiù di ambiguità e caos.
In fondo, alla fine della corsa del vivere quotidiano, tu perché credi ancora nel potere delle storie?
Per lo scarso o nullo potere che hanno sul mondo e per quella strana malìa che le fa potenti nel rispecchiare un mondo di merda o strepitoso, violento o arcangelico, arcaico o moderno.
Se te la senti, raccontaci di un tuo manoscritto pronto: insomma, di una serie di storie che potrebbe interessare gli editori o di un romanzo a cui stai lavorando, e che vorresti vedere pubblicato da un editore sensibile alla tua produzione letteraria.
In effetti sono due i progetti ai quali sto lavorando attualmente e sono pressoché conclusi: un romanzo e dei nuovi racconti. Il primo ruota intorno alle vicende di una donna che, per motivi che tutti attorno a lei considerano assurdi, vive gli ultimi quindici anni della sua vita rinchiusa in una durissima clausura. La storia sviluppa il tema del far riposare in pace i nostri morti e prova a mostrare come questo tema si rovesci spesso nell’inconscio e maldestro tentativo di far riposare in pace le nostre vite qui ed ora. Mentre un morto, non seppellito come si sarebbe dovuto, implacato continua ad aggirarsi tra le esistenze dei personaggi. Lo si vede appena, in filigrana, ma manterrà tutta la sua ingombrante presenza irrisolta fino alla penultima pagina.
I racconti invece sono al momento legati e raccolti all’insegna del motivo unificante Miraggi e altri cazzeggi, e dunque visioni in forma di racconti, miraggi appunto, visitazioni, storie di sensi che ci tradiscono – come quella cosa a quattro zampe che sbuca da quella curva lì, in un una canicola che pare aver cacciato i viventi dalla terra, e avanza tra le onde di calore che si sollevano dall’asfalto, fino a che realizzi che è proprio un dromedario quello che ti sta venendo incontro. Sono storie di conti che non tornano, di cervelli che lavorano fuori dal nostro controllo e che rendono fuorviato il nostro modo di stare al mondo.