Con Jàbes io posso dire fu rapimento. E quando una scrittura di rapisce? Ovvio, quando ti nomina in tua vece.
Ieri ho ripreso in mano, grazie a un giovane amico, Dal deserto al libro, la conversazione “di” Edmond Jàbes “con” Marcel Cohen, (di e con e non fra), dice: L’idea di andare a vivere in Israele non mi ha mai sfiorato.
Forse in questo c’è qualcosa di ancor più profondo e che viene costantemente affrontato nei miei libri, ossia la mia viscerale ripugnanza ad ogni forma di radicamento. Ho l’impressione di avere un’esistenza solo fuori da ogni appartenenza. Questa non appartenenza è la mia sostanza stessa. Forse non ho da dire nient’altro che una tale dolorosa contraddizione: io aspiro come tutti ad un luogo, a una dimora, e nel contempo non posso accettare quel che viene offerto. […] Un tale rifiuto non è un atteggiamento deliberato ma una disposizione profonda, contro cui io stesso lotto e che cerco di chiarire. Questa non appartenenza, con la disponibilità che mi concede, è anche ciò che mi avvicina all’essenza stessa dell’ebraismo […] Ciò può apparire paradossale, ma senza dubbio è proprio in questa rottura – in questa non appartenenza alla ricerca della propria appartenenza – che io sono più ebreo.
Derrida nel suo dialogo con Roudinesco, De quoi demain, dice: Questa incalcolabile molteplicità interiore […] mi fa riflettere sulla mia appartenenza e al tempo stesso sulla mia non appartenenza all’ebraismo. D’altra parte, non credo che questa disgiunzione o non-identità a sé sia un aspetto puramente o esemplarmente ebraico; ma chi oserà pretendere che non si tratti anche di un aspetto decisamente ebraico?
Luca Sossella