Ricordo un autunno del 2011. Dietro la cattedrale anglicana di Liverpool c’era una fila di piccole case a due piani. In una di queste vivevo io, assieme alla mia fidanzata di allora. Dividevamo una piccola stanza con un letto singolo, una scrivania, un armadio. Io avevo ventisette anni e la mia compagna venticinque.
Liverpool è una città nebbiosa. Non è inquinamento, non è una nebbia data dall’accumulo dei gas di scarico delle automobili o dai riscaldamenti delle case. Viene dal Mersey alla fine dell’estate e vi rimane fino all’estate successiva. Si aggrappa alle cose e ne diventa parte integrante: si attorciglia agli alberi, passa sotto le porte delle case, si attacca all’anima e non c’è modo di cavarsela.
Spesso, di mattina, dopo essermi svegliato dal caldo abbraccio del mio amore, provavo una specie di bruciante nostalgia. Non per qualcosa di particolare. Era una nostalgia assoluta la mia. Fissavo l’autunno fuori dalla finestra, gli alberi spogli, carichi di anni e di sguardi, stagliati contro la grande cattedrale. Poi fissavo il mio amore in tutta la sua straripante giovinezza. Nessuna guerra pesava sulle nostre anime, nessuna mostruosa privazione ci impediva di godere di tutta quella Gioia.
Sarebbe finito tutto in un attimo. Era questa Fine, impressa al centro dei nostri occhi, di una bellezza insopportabile.
Allora uscivo di casa, sotto una pioggia sottile. La nebbia fissava la sua immane potenza e inchiodava la mia anima al freddo intenso del Nord.
Era quella la mia Europa? Anche.
Camminavo a lungo, circonfuso da sogni e visioni: erano infinite speranze. Percorrevo interminabili distanze per cercare di prolungare quei sconvolgimenti, durante i quali desideravo ardentemente grandi amori, grandi imprese per l’umanità, battaglie tra oppressi e i loro tiranni. Erano libertà senza nome.
Solo, sotta la pioggia, con la musica nelle orecchie per potenziare i sensi, cercavo di fermare quelle suadenti commozioni. Era il richiamo di una Nostalgia ancestrale, tanto indicibile quanto reale.
Dove andavo? Ovunque.
Infinite possibilità. Tutti i posti, per ogni tempo passato e a venire.
Eppure, io sceglievo sempre quell’unico luogo.
Camminavo per un’ora, poi prendevo il bus n° 19 in London Road e scendevo a Breck Road. L’autobus saliva bruscamente dal mare e scollinava nel quartiere di Everton, a ridosso dello stadio dell’omonima squadra di calcio. In tardi pomeriggi invernali, se si viaggia seduti sulla seggiola accanto ai finestrini sulla sinistra, dal 19 si scorge l’intera città. Le luci fendono la nebbia, e la notte cola a picco, per inabissarsi nelle schiumose acque del Mersey.
All’avvicinarsi della meta, il paesaggio cambiava pelle. Non era un cambiamento brusco, ma un mutare delicato, che non interessa solamente la morfologia del terreno, le pendenze, il tipo di alberi, le diverse tonalità di verde, giallo e bordeaux.
Al trasformarsi dei Confini che segnano la fine delle cose, cambiavano le Persone. Vacillava, un’intera Civiltà. Le siepi delle case si facevano più rade, sostituite prima da bassi muretti, poi da muri e infine muraglie in cemento separate dal cielo dal filo spinato.
Sapevo di essere arrivato quando mi si spalancava innanzi il regno degli Incurabili.
Al riparo dagli sguardi del mondo, gli Ultimi raccattavano brandelli di Welfare, trincerati in quartieri ombra dove l’Europa finisce e comincia l’Inferno. Il Nostro.
Ricordo i nomi di quei posti. Erano chiamati anche Nazioni.
A metà mattina, quell’esercito silenzioso cominciava la propria marcia. Casa per casa, andava a pregare le sue divinità in lunghe processioni. Dicevano di essere gli scarti dell’inesorabile declino dell’industria inglese e di quel porto imperiale che fu, la città di Liverpool. Quelle catene se le sono passate di generazione in generazione, da padre a figlio.
Non ho letto questo nei libri di Storia. Fu nei loro occhi ch’io vidi la mancanza di un’intera Epoca.
Le Crack House situate ad ogni strada, di modo da coprire tutto il territorio, erano rifornite continuamente di droga. I Pub dove nei cessi si consumava cocaina a fiumi erano ancora più numerosi. Interi nuclei famigliari usavano queste stazioni infernali come unici luoghi di aggregazione. Lo stato forniva un alloggio, un sussidio e il metadone.
A Everton non c’erano extra-comunitari, stavano in un quartiere tutto loro dall’altra parte della città: la decadenza sistematica di quel frammento di umanità era un prodotto esclusivamente Made in England, privo di contaminazione straniera.
È questa l’Europa? Si, è anche questa. Ma non la mia.
Io vedo Poeti, Uomini, Donne e Bambini forgiare Nazioni con il ferro delle loro catene spezzate.
Fabien Pante