Chissà, forse quel giorno io e GRM ci siamo incrociati, in quel posto chiamato Macondo, come la città immaginaria di García Márquez, rifugio milanese di una fuga raccontata all’inizio del libro, dove poco dopo sbarcarono Allen Ginsberg e Peter Orlovsky insieme all’alone mitico della beat generation.
Non è facile restituire il senso di quel periodo così fitto di suggestioni: nell’aria girava un caravanserraglio di cascami ideologici e ideali nobili, vitalismi ignoranti e desideranti, scontri generazionali, mitologie operaiste e culture hippy, erotismo, arte di arrangiarsi, droghe e “vin canchero”, psichedelie, spinte libertarie, nostalgie totalitarie, incontri speciali, teatro, musica, cinema, letteratura, pittura, fotografia, regressioni infantili, impulsi rivoluzionari.
Nel lungo caos post sessantottino che in Italia generò il suo ultimo capitolo nel movimento del ’77, di cui Bologna fu l’epicentro, il ragù di cultura era cotto a puntino per uno spirito ribelle e rinascimentale come il suo, così ispirato alla poesia, al fiato dell’attimo, al gesto.
Il caos perfetto in cui respirare, metabolizzare, agire. Col merito, da mosca bianca, di non farsi fottere dall’ideologia e di tenere la barra dritta sull’ideale. Nelle ultime pagine del libro è paradigmatico il dialogo tra lui, affiliato alla Federazione Comunista Anarchica, e il giovane camerata vicino alla nascente organizzazione di Terza Posizione, come lui in attesa di essere processato per direttissima nel carcere di Bologna.
Canto e disincanto, in poche battute c’è l’anticipazione del riscatto postumo da quel conformismo tombale e trasversale che di lì a poco, dopo il caso Moro, libererà tutti i suoi veleni, e il cui mutuo letale è in corso ancora oggi, programmato in infinite rate, con relativi interessi.
Nell’epicentro del kali yuga di questa nostra epoca, il suo percorso si può declinare su un piano visionario.
Come dichiara di sé nella nota biografica del suo sito, Gian Ruggero Manzoni è poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, performer. Il sacrificio dei pedoni racconta bene, attraverso un uso filologico del linguaggio dell’epoca, l’ambiente in cui “il Conte” (così GRM era chiamato ai tempi) inizia la sua sfida assecondando un istinto al quale non abdicherà mai, navigando tra diverse forme d’arte e di pensiero, e onorando il conto di un destino doppio, beffardo e virulento, azionato da un timer implacabile per venticinque lunghi anni.
Gian Ruggero Manzoni è il rovescio della medaglia di quest’ultimo mezzo secolo, attraversato con l’ardore per la sfida, che il narcisismo dell’artista non può bastare, da solo, a reggere, perché la sua è una storia troppo complessa e sorprendente. C’è qualcosa di più, che si spiega con l’amore per la vita, per il suo apparente non-senso, e la conseguente ricerca di un rifugio quasi mistico, in altezza.
Per riassumerlo in una frase mi viene in mente Emil Cioran: «Solo l’artista scadente parte dall’arte; il vero artista la sua materia l’attinge altrove: in sé stesso». In analogia con quelle di suo cugino, Piero Manzoni: «Non c’è nulla da dire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere».
Il sacrificio dei pedoni è una lente d’ingrandimento sul desiderio di trasformare il pensiero in antidoto e metabolizzare, superare l’imbroglio, nel centro della perturbazione. La cotta fatale per l’utopia, che il tempo può diradare negli incroci infiniti delle esperienze, ma che mai si può eludere completamente. E per la bellezza, men che meno. Da queste pagine emerge il germe di quel ritmo ondulatorio per un lavoro di ricerca improntato al fare.
Per chi ha vissuto dentro le dinamiche di quel tempo, è un’occasione per controllare il serbatoio della memoria, e capirci di più, e meglio.
Per gli altri, è la testimonianza viva di un mondo che, nel bene e nel male, ha segnato la storia e il costume del nostro paese.
Claudio Sanfilippo
Recensione al libro Il sacrificio dei pedoni di Gian Ruggero Manzoni, Castelvecchi Editore, 2019, pagg. 174, euro 18,50.