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Ilias Venezis anteprima. Il numero 31328

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Lasciamo alle parole di Antonia Arslan, autrice della prefazione, la presentazione di questo Il numero 31328 di Ilias Venezis, di cui pubblichiamo anche un estratto grazie alla casa editrice Settecolori.

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Ho letto per la prima volta questa storia inedita e affascinante di sofferenza, di coraggio e di riscatto tanti anni fa, quando comprai a Roma, su una bancarella di libri usati vicina alla Stazione Termini, la prima edizione italiana (traduzione dall’edizione francese e non dal greco come la presente): un libretto sgualcito pubblicato nel 1947, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale* . Il titolo era stato cambiato in La grande pietà, molto meno realistico e più «neutro» di quello originale, Il Numero 31328, che trasmette al lettore il brivido oscuro della memoria dell’annientamento degli ebrei sotto il regime hitleriano, coi numeri tatuati sulle braccia dei deportati. Conoscevo già il nome di Venezis. L’anno prima avevo letto con passione Terra d’Eolia, che è in realtà il suo terzo romanzo (uscito in Italia per l’editore Casini nel 1951). L’autore lo definisce «il semplice libro degli uomini buoni», ma è molto di più. È un libro incantato, nel quale i paesaggi e le persone danzano insieme in una solare e delicata armonia, in cui sembra echeggiare il flauto silvestre di Pan e la nostalgia degli esuli cacciati per sempre da un eden che non si può dimenticare. Quando mi immersi nel racconto di quel mondo leggendario della grecità tanto amato e tanto perduto, rivissuto come una fiaba malinconica attraverso le vite laboriose e coraggiose dei «romei», i discendenti dei bizantini, cominciai ad afferrare l’eco di quella civiltà così antica e così preziosa, che non era la Grecia peninsulare che conoscevo e amavo, ma l’altra, la Ionia ubertosa e ricca d’acque che si affaccia sull’Egeo, dove nacque la filosofia e il popolo greco ebbe radici fertili e profonde. La sua capitale era Smirne, il grande porto mediterraneo, una città profondamente greca, vivacissima, tradizionale e moderna insieme, dove convivevano greci, turchi e armeni, ebrei, levantini e gente di tante altre etnie. Una spina nel fianco del generale Kemal, il nuovo padrone della Turchia, che non a caso – dopo aver respinto a mare lo sconfitto esercito greco – la abbandonò al fuoco, che cancellasse anche il ricordo degli splendori del passato. Siamo nel settembre del 1922. Venezis è un ragazzo di campagna diciottenne, che si trova, come tanti altri, coinvolto nel disastro, in quella che viene chiamata la grande catastrofe dell’Asia Minore. Perché non ci fu solo l’incendio. Subito dopo, venne condotto contro i sudditi ottomani di etnia greca un gigantesco e capillare «rastrellamento», che portò alla deportazione verso l’interno dell’Anatolia di decine di migliaia di uomini fra i diciotto e i quarantacinque anni – avviati per la maggior parte alla morte – e nell’esodo forzato dalla patria ancestrale (abbandonando tutto, terra, case, beni, secondo lo schema collaudato contro gli armeni) di tutti gli altri, donne vecchi bambini: circa un milione e mezzo di persone.

Questo è il tema di Il Numero 31328, la prima, bellissima opera di Venezis. Credo che, senza quella paziente e dolorosissima fatica nel ripercorrere le tappe dei suoi quattordici mesi di prigionia nei cosiddetti battaglioni di lavoro (degli uomini della sua città, Aivalì-Kydoníes, scriverà, su 3000 sopravvissero in 23…), senza aver rivissuto ed esorcizzato quello spaventoso calvario, egli non avrebbe potuto descrivere con tanta amorosa nostalgia – ma anche con la consapevolezza che quel mondo se ne era andato per sempre – la patria perduta che aveva dovuto abbandonare: e trasformare la sofferenza in poesia. Le immagini di bellezza senza tempo che incantano in Terra d’Eolia riemergeranno e potranno fiorire in lui soltanto dopo che avrà affrontato il racconto della tragedia, sua e di tutto il suo popolo.

Antonia Arslan

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Nascosto nella nostra casa seguivo la terza spedizione che partiva verso l’interno. Potevano essere trecento uomini, in doppia fila. Dietro di loro correvano fuori di sé le donne. Gridavano tutte assieme, si introducevano nella fila. I soldati le respingevano, e quelle niente: ritornavano, e dicevano, dicevano. Li consigliavano di guardarsi dalle acque sporche perché danno la «lissenteria»; dal freddo. Una gridava che il cucchiaio sta nello scatolo con lo zucchero; un’altra di una maglia di lana rossa; un’altra di un pugnetto di foglie di tiglio che aveva messo da qualche parte. E improvvisamente, mentre il discorso verteva sul tiglio, quest’ultima scoppia in un urlo, delle strazianti, sgraziate lacrime:

− Ah, Gesù mio, non lo rivedrò mai più!… Non lo rivedrò!

− Bambino mio, porta pazienza, pregava un’altra un giovanetto aitante. Non li contraddire, dovessero batterti…

ra una vecchietta rugosa. Nei suoi occhi cercavano di restare in equilibrio, di uscire una assieme all’altra, due inutili lacrime.

Guardavo nascosto dietro alla finestra. Nella spedizione distinguo il suonatore Kostas Lélekas. Era un tipo permaloso, monocolo e pallido – quasi un poema del XIX secolo. Era arrivato all’improvviso, un anno prima, nel nostro paese. Suonava in un caffè. La clientela sonnecchiava. Era una musica – lacrime preferite o sorrisi? – senza sangue, vene completamente vuote. Gli dissero di cambiare rotta, di mettere un po’ di condimento nei suoi «sospiri». Si avvolse nella sua giacca sudicia e diede con tutto se stesso un «no» fermo e appassionato – ti saresti domandato come potesse farcela a mantenerlo. Per un certo tempo fece la fame. Poi lo compatirono. Era tisico.

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