L’occasione è stata una delle presentazioni romane di “In fondo è una palude” (Giulio Perrone editore, 2018, pp. 200, € 15), un libro nel quale lo scrittore e traduttore Seba Pezzani raccoglie quindici anni di conversazioni e fitta corrispondenza con Joe R. Lansdale.
Abbiamo incontrato il maestro texano nella sede dell’Associazione EQuiLibri in via Sivori 6 dove, fedele alla sua fama di persona gioviale e disponibile, ha dispensato sorrisi a tutti, firmando autografi e concedendosi ai selfie di rito.
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Perché secondo lei in Italia c’è una così grande ricettività nei confronti dei suoi libri?
Qualche volta ho provato a chiedermelo, ma non sono mai riuscito a darmi una risposta definitiva. Forse dipende dalle ambientazioni piuttosto “esotiche” rispetto agli scenari naturali ai quali siete abituati voi, ma è solo una mia ipotesi. Di certo amo tantissimo il vostro Paese e, tra l’altro, ho anche lontane origini italiane, del Meridione. L’ho scoperto facendo qualche ricerca sul mio albero genealogico.
Se Joe R. Lansdale fosse nato lontano dall’East Texas, che scrittore sarebbe stato?
Probabilmente anche in quel caso sarei stato fortemente influenzato dal posto in cui mi sarei trovato a vivere. Magari però le mie storie sarebbero state completamente diverse. Se fossi vissuto, che so, a New York o a Los Angeles, sarebbero state impregnate dell’atmosfera che si respira da quelle parti. Credo sia inevitabile e naturale lasciarsi influenzare dalla realtà che ci circonda, anche se, e ci tengo a ribadirlo ogni volta che qualcuno me lo domanda, l’idea che la gente ha del Texas è davvero molto falsata: noi che viviamo nella zona est o sud di questa terra, siamo davvero molto diversi da quelli che vivono nel nord o nell’ovest. Per esempio, parliamo in modo molto più veloce e con un accento più marcato. E che dire poi di quello che Hollywood sembra aver radicato nella testa delle persone a proposito del paesaggi del Texas? Dove abito io, non ci sono cactus o deserti, ma boschi rigogliosi (ho sempre vissuto vicino ad un bosco, tra l’altro) e paludi, la natura è estremamente variegata e lussureggiante, niente a che fare, insomma, con il classico “set” desertico da film western che uno si immagina. Eppure, ogni volta che esce un mio libro, sono costretto a doverlo specificare agli illustratori non americani delle mie copertine, che, puntualmente, mi propongono quel tipo di iconografia!
Quando accettarono il suo primo manoscritto, avrebbe mai immaginato di trasformarsi nel romanziere amato ovunque che è diventato oggi? E, se sì, perché?
Io ho cominciato a scrivere prestissimo, la mia prima storia credo di averla elaborata quando avevo quattro anni. E già a dodici-tredici anni un mio romanzo di avventura venne accettato per una piccola pubblicazione. Guardando a questi quasi quarant’anni di carriera professionale, posso dire sicuramente di aver sempre sperato, fin dai primissimi tempi, di potermi guadagnare da vivere con quello che scrivevo. Certo, all’inizio sarebbe stato difficile immaginare di arrivare a riscuotere un successo così, però dentro di me sapevo che qualcosa sarebbe potuta accadere. Inventare storie è sempre stato nel mio dna.
Noir, fantascienza, fumetti, narrativa d’autore: c’è un libro che sogna ancora di scrivere?
Probabilmente l’ho già scritto, si chiama “Jane goes North”, ma non so se e quando verrà pubblicato in Italia.
Lei che è americano: esiste una via di mezzo tra l’American dream e “il lungo incubo al neon” di cui parlava Henry Miller?
Io credo che questi due estremi siano le faccia di una sola medaglia. La nostra è, è stata e sempre sarà una terra di grandi contraddizioni, dove può succedere di tutto ma dove può anche, purtroppo, non succedere niente. Io, per esempio, mi sento un perfetto esempio diAmerican dream che è diventato realtà, però so bene che ci sono tante persone di valore che non ce l’hanno fatta e non ce la faranno nonostante abbiano grandi qualità. Come so che ci sono molte persone, soprattutto nelle fasce più deboli della nostra società, che rischiano di affrontare una vita molto dura. Questa è l’America.
Mentre scriveva “Honk Tonk Samurai”, le venuto in mente, anche solo per un istante, di mettere fine alla serie di Hap&Leonard?
Neanche per sogno! Però, mi è sembrato interessante far credere ai miei lettori che la cosa potesse succedere. È divertente sondare le reazioni del proprio pubblico a qualche cosa che non si aspetta. Per me scrivere questa serie è come andare a trovare due vecchi amici, un autentico piacere. Perché avere degli amici, persone alle quali dare affetto e riceverne in cambio, è una dei motivi che rendono le nostre esistenze degne di essere vissute. Come anche avere una famiglia alle spalle. La mia è stata eccezionale, se sono riuscito a diventare quello che sono, lo devo anche al modo in cui sono stato amato e in cui sono stato cresciuto dai miei genitori.
Quanto Joe R. Lansdale c’è in Hap Collins?
Oh, direi almeno il novanta per cento. Abbiamo le stesse esperienze, la stessa attitudine nei confronti della vita, del lavoro e della politica, lo stesso sentimento di amore(molto)-odio(poco) nei confronti del Texas. E, soprattutto, siamo due underdog.
Lei che è un maestro riconosciuto della short story, come si spiega il declino apparentemente inesorabile del genere nelle grazie del pubblico?
Spesso sento dire questa cosa, anche se qualche volta capita anche il contrario. Pochi giorni fa, per esempio, parlavo con Luca Briasco e mi diceva che forse stiamo vivendo un’epoca di rinascita del racconto breve. In ogni caso, io penso che mi ci troverò sempre a mio agio e che continuerò a scriverne perché l’ho sempre considerata una forma di espressione assolutamente naturale per me, una predisposizione.
Per un autore spesso seriale come lei, qual è la formula per sfuggire alla maniera? O è forse proprio la maniera a dare senso alla serialità?
Io credo che l’unica cosa che conti, sempre, in una serie o in un romanzo senza legami con altre storie, siano le idee personali, l’ispirazione. Tutto il resto è solo una conseguenza che può essere letta come meglio si crede.
A proposito di ispirazione: quanto conta, rispetto al mestiere, per fare di uno scrittore un grande scrittore?
Quasi tutto. Il mestiere, nel corso del tempo, può essere imparato, ma l’ispirazione è il motore di tutto. O ce l’hai o non vai da nessuna parte. Le mie storie nascono tutte a livello di inconscio, se dovessi fare un esempio personale. Non sono un autore che utilizza griglie o schemi pre-determinati. Credo che se arrivassi a un livello di organizzazione della mia scrittura di questo tipo, perderei completamente interesse nei confronti del mio lavoro.
La sua grande passione per le arti marziali e la continua pratica delle stesse ha influenzato in qualche modo i suoi libri, al di là delle scene in cui ne scrive?
Certamente! Le arti marziali ti danno concentrazione, struttura, disciplina e, soprattutto, una cosa fondamentale per un narratore: il senso di contatto con una persona (e, su questa affermazione, mi colpisce scherzosamente con una rapidissima serie di colpi dalle imperscrutabili traiettorie, ndr). Come anche il pugilato, che amo tantissimo. Alì, Frazier, Foreman, Joe Louis, “Sugar” Robinson, “Sugar” Leonard. E, sì, anche grandi di un passato molto lontano come Jack Johnson (che ispira chiaramente una delle figure più riuscite ne“L’anno dell’uragano”, ndr).
Un suo collega che la annoia e uno che non ha ancora ottenuto il successo che avrebbe meritato?
Alla prima domanda non rispondo, perché non mi piace parlare male dei miei colleghi. Per quanto riguarda la seconda, direi Lewis Shiner (del quale presto Giulio Perrone editore pubblicherà nuovi romanzi).
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Prima della presentazione, riusciamo a scambiare qualche battuta anche con l’autore di “In fondo è una palude”, Seba Pezzani.
Da dove nasce l’idea di un libro come questo?
Era latente da molto tempo. Oltre ad essere il traduttore di alcune sue opere, io, da ormai quindici anni, sono anche un buon amico di Joe R. e ho pensato che sarebbe stato bello raccontarlo in una “non-biografia” come questa. Ci tengo a precisare il carattere particolare di questo lavoro, perché la mia intenzione era restituire il profilo dell’uomo vivo, del suo modo di vivere e di pensare, oltre che del suo modo di scrivere. È per questo che non mi sono limitato ad assemblare tre lustri di conversazioni, mail e documenti vari, ma ho scelto di trasferirmi una settimana da lui, a Nacogdoches, per seguirlo nella sua quotidianità. E spero di essere riuscito a restituire qualcosa dell’uomo Lansdale, che è una persona squisita, di grande sensibilità e di zero affettazioni. Credo che il suo grande successo sia anche la conseguenza di un atteggiamento nei confronti della vita da “persona qualunque”, senza affettazioni o strani fronzoli.
Quando quindici anni fa si è imbattuto per la prima volta in Lansdale, che cosa ha pensato?
È stata un’autentica folgorazione, fin dalle parole di apertura di “Bubba Ho-Tep”. Ho pensato che mi trovavo di fronte ad uno scrittore davvero diverso, unico E naturalmente la nostra frequentazione successiva e la possibilità di poter lavorare alla traduzione dei suoi fantastici libri non ha fatto altro che rafforzare questa prima impressione. Ci sono pochi scrittori in giro del suo valore e della sua umanità, davvero.
Domenico Paris