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In ordine sparso. Intervista a Lorenzo Mari

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Otto racconti. Questo è il contenuto di In ordine sparso (pagg. 142, € 15,00), raccolta narrativa del poeta e saggista mantovano Lorenzo Mari, uscita per Galaad Edizioni.

Le narrazioni sono tutte ambientate in un territorio a bassa industrializzazione, periferico e volutamente imprecisato: il fantasmatico e misterico paese di P***. Una vera e propria terra di nessuno, dove accade di tutto e dove tutto quel che accade pare essere colpito da quelle che potremmo definire strane crisi di afasia.

È una forma di spaziotempo esploso, quanto Mari crea negli otto racconti: un tempo che nega la coerenza cronologica, un territorio che si rifiuta di collegare coerentemente i luoghi in esso inseriti.

Lì dentro (in un’altra dimensione però troppo vicina alla nostra) si propaga il senso di afasia, che contagia ambiente come personaggi.

Mari mette in scena una possibile provincia italiana, con un occhio che pare aver scandagliato nell’horror per poi restituirla al lettore ripulita da tutti i luoghi comuni istituzionali voluti dal genere, al contrario di quanto fatto a suo tempo da Eraldo Baldini.

Provincia che però non è carina, non è divertente, non è nemmeno triste, come poteva essere quella narrata da Piero Chiara. Prima di tutto, essa non è.

In secondo luogo, appare quasi essere al termine ultimo della sua vita, vicina a un crollo definitivo.

I personaggi che si aggirano per le pagine di In ordine sparso sono oramai andati troppo oltre, per voler offrire spiegazioni o trovare motivi e scusanti riguardo quanto compiono. Vivono vite slegate da qualsiasi spinta, fuori traiettoria, impossibilitati a intercettare le traiettorie di altre vite di altre storie.

Ci sono orrore del vuoto e morte dentro In ordine sparso, senza che sia necessario dichiararle apertamente. Aleggiano per le pagine, vengono suggerite, anche quando si fa largo una partecipazione benevola verso personaggi come il Giuseppe de L’ultima formazione titolare della Cecoslovacchia ai Mondiali.

È qualcosa che dura un niente, prima di riprecipitare il lettore nel vuoto ghiacciato della scena.

Insieme a loro trovano spazio, in nuce o sotto mentite spoglie, alcuni elementi di una tradizione letteraria che continuiamo a definire “di paura”, anche se proprio non vuole farne, di paura. Perché Mari sa come questo sentimento si trovi oramai al di là dell’evento preso a pretesto e sviluppato in ogni singolo racconto.

L’orrore si dà attraverso una ironia pulviscolare, attraverso un uso leggero del grottesco, evidenziando la linea afasica che investe molti racconti. Detto questo, In ordine sparso si mostra come una raccolta di racconti capaci di raccontare soprattutto la perdita percettiva dell’essere umano, il suo perseguire ottusamente il proprio destino, la sua incapacità a trarre insegnamento dalle esperienze, tragiche o ridicole esse siano.

Ne abbiamo parlato con l’autore.

Sergio Rotino

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Quali numi tutelari narrativi ti sei portato dietro nello scrivere gli otto racconti di In ordine sparso?

Non evocherei numi tutelari, per reverenza e per scaramanzia rispetto a quel mondo degli spiriti che è, anche, il Canone.

Posso dire di aver cercato di tradurre alcune mie letture all’interno di un tentativo di raccontare la storia di un paese che non restasse troppo impelagato nei territori del provinciale, pittoresco o folkloristico.

Pur non trattandosi di un paese emiliano, né di pianura né di Appennino, ho cercato di portare con me Casa d’altri di Silvio d’Arzo (d’altronde “racconto perfetto”, secondo Montale) o anche le trovate immaginifiche di Celati o Cavazzoni, per arrivare alle narrazioni più recenti di Matteo Meschiari o, sul versante ligure, di Marino Magliani (che mi ha regalato una nota, nella bandella del libro, assai generosa).

Lo sforzo di non essere provinciale collima con le letture di narrativa straniera, dai racconti di E.T.A. Hoffmann al post-esotico di Volodine…

E poi per uno scrittore di racconti alle prime prove come me, i riferimenti cinematografici sono importanti, sia come citazioni che come atmosfere visive: da Tarkovskij a Márta Mészáros, passando per Zero in condotta di Jean Vigo. Ma anche attraverso i film apocalittici hollywoodiani, di qualsiasi risma, degli ultimi decenni.

Allo stesso tempo, mi è sembrato importante far emergere il “sentito dire” delle storie di paese, come ha rilevato Silvia Tebaldi: un portato autobiografico che si costituisce traccia linguistica senza avere punti fissi di riferimento, se non nella storia del paese, o dei paesi, che mi è toccato di conoscere in prima persona.

Ho avuto l’impressione che nei tuoi racconti appaia, probabilmente senza alcuna volontà, l’idea di un minimalismo freddo vicino a Parise. Contemporaneamente, la situazione narrativa e il tono complessivo che proponi sembrano recuperare qualcosa da Malerba.

Sono autori che conosco meno, e forse – dico, sorprendendo anche me stesso nel dirlo – ho letto più Malerba che Parise.

Walter Pedullà ha scritto di Malerba che il suo “gesto più congeniale” è lo “svuotamento”, operato da un linguaggio che “scava” di continuo, secondo un’attitudine culturale, che è talvolta radicata in qualche contesto italiano e di provincia, ma sempre voracemente curiosa.

Mi sembra che questo rilievo ben si accordi, pur nella diversità, con il tuo riferimento al raffreddamento dello stile.

Osservazione mossa anche da Magliani. La scelta di operare una distanza dalla dimensione di paese più immediata e stereotipata, probabilmente, si è tradotta anche in questo.

È anche inclinazione alla reticenza, come forse mi accade nella scrittura poetica. Molto lontano, per altri motivi, dalla lingua tutto sommato piana e disaggrovigliata di questi racconti, ciò che ho scritto in poesia si avvale di una medesima forza, anche linguistica e performativa, del non detto.

Giro allora la domanda. Quali autori conosci di più e ti hanno influenzato?

Per formazione e per inclinazione personale, ho frequentato a lungo i territori della narrativa africana, quella cosiddetta “postcoloniale”, e della narrativa latinoamericana del Novecento e dei primi decenni di questo secolo.

Sono letture spesso molto lontane dalla scrittura di questi racconti; la stessa categoria di “realismo magico”, che magari può venire subito alla mente parlando di queste tradizioni letterarie – di quella latinoamericana, in particolare, ma anche dell’altra – è stata spesso criticata perché se ne è fatto un abuso che ha finito per rendere apparentemente omogenei testi molto diversi tra loro.

Non credo nemmeno che valga la pena chiamarla in causa in questa sede, per questi racconti, anche se è vero che di tanto in tanto succede qualcosa che incrina la superficie ordinaria delle cose e degli eventi.

Quindi non vi sono rimandi forti…

Le mie letture si sedimentano spesso in luoghi remoti rispetto alle ambizioni e all’orizzonte della scrittura.

Lo stesso mi accade in poesia, dove quasi mai ho avuto modo di veder chiamati in causa autori a me carissimi – salvo qualche eccezione: Giorgio Caproni, Franco Fortini o Giuliano Mesa – finendo invece per discutere autori meno affini ma più “presenti” nella memoria, all’atto di scrivere.

Sono cose che capitano, quando non si hanno “maestri” dichiarati, nel senso che si cerca di sfruttare il meno possibile quel tipo di aura e prestigio culturale.

Non credo che ci sia bisogno di farlo, in fondo: se vengono citati “maestri” e “maestre”, molto spesso si tratta di semplificazione critica o di opportunità pratica. Si può vivere, e scrivere, anche senza farlo. Magari è meno “remunerativo”, ma si assapora una maggior libertà…

I personaggi che proponi nei tuoi otto racconti, risultano quasi sempre “afasici”. Sono anche dei ritornanti – al paese intendo, quasi dei corpi estranei, se non addirittura ostili. Cose che ne dettano, credo, la contemporaneità verso di noi.

Parlando di afasia, un dato che certamente è presente in alcuni dei racconti, mi ricordi una lettura che mi ha molto colpito ormai più di vent’anni fa, cioè quella di Soldier’s home, di Hemingway. È stato scritto un secolo fa, però è un altro racconto perfetto, secondo me e non soltanto secondo me. È una miniatura dell’esperienza traumatica e dunque, appunto, afasica della guerra.

Direi che questo ritornare al paese da corpi estranei, ostili e senza parole, si innesta su una storia a propria volta traumatica, nel senso che il paese di P*** ha esperito una lunghissima storia di catastrofi, ma queste, come suggeriva Winnicott, sono sempre già avvenute quando (ri)emergono.

Sono tutte catastrofi che però non sembrano apparentemente insegnare nulla ai vari protagonisti. Ognuno segue un proprio destino, direi caparbiamente. Vedi la possibile bomba nel cimitero, vedi la neo-mitologica figura dell’orsolupo. Mi pare che in questi aspetti la raccolta si vesta di un certo pessimismo più che di una critica sociale.

Sì, le catastrofi disseminate nel libro non insegnano nulla ai personaggi, così come le catastrofi della Storia sembrano averci insegnato poco o nulla. Non c’è bisogno di nominare esempi recenti: sono sotto gli occhi tutti. In questa attitudine resta un germe di critica sociale, ma non viene poi sviluppata, mentre a prevalere – hai ragione – è una sorta di pessimismo generalizzato.

Sono inoltre catastrofi che, come da etimologia, rivoltano il corso della storia, producendo la cronologia non lineare e confusa di certi eventi quando vengono citati o ripresi all’interno dei diversi racconti.

Non c’è, infine, catarsi, anzi: il mondo di P*** continua a far comunicare senza successo vivi e morti, come se il mundus patet ricordato dall’esergo iniziale di Plutarco e analizzato da De Martino ne La fine del mondo (una lettura molto diffusa, e che ho trovato fondamentale, qualche anno fa, in tempi di pandemia) non si chiudesse mai.

Anche per questo i racconti non si legano almeno apparentemente fra loro, non sembrano seguire una cronologia?

La mancanza di una cronologia lineare è una conseguenza della logica interna di cui abbiamo detto. Non c’è invece una logica architetturale o comunque di insieme, come ha sottolineato anche Paolo Desogus nella recensione uscita sul manifesto, perché questi racconti non vogliono e non possono farsi “romanzo di un paese”.

Magari si può usare l’ultimo racconto come chiave per leggere, a ritroso, il tutto. Ma è una chiave a propria volta enigmatica, affidata a quaranta pavoni… Probabilmente non sono molto affidabili, neanche come simbolo, ma almeno mi hanno consentito di terminare il libro sulle note di Henry Purcell e con le parole di Gerald Manley Hopkins.

Insomma, il tuo paese di P*** è simbolo di una smemoratezza congenita. Oppure di una forma di aporia?

Più aporia che amnesia. Un paese senza romanzo, ma con tante storie, ruota attorno a un vuoto centrale di definizione. Non si vuole identificare in tutto e per tutto con la provincia italiana, come dicevo; al tempo stesso non è e non vuol essere un luogo universale. È un luogo in cui si intrecciano alcune storie in una forma che, di fatto, è spesso costitutivamente aporetica, come quella del racconto.

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