“In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo”, edito da Fazi editore, Roland Schimmelpfennig (1967), da bravo drammaturgo tedesco, mette abilmente in scena una storia senza storia, rappresentazioni di storie che s’intrecciano, esistenze diffidenti e vive come il vento germanico freddo sulla faccia d’inverno.
Qui, l’unica vera storia è quella di un lupo. Di una presenza che tutti desiderano toccare con mano, che tutti cercano, ma che non si riesce mai ad afferrare. Lascia sempre tracce quanto basta indecifrabili. “…Non mi dire che sei uno di quelli che non ci credono che il lupo c’è davvero, perché il lupo c’è, l’ho visto anch’io…”
Un lupo trasformato in fiaba di sé. Un lupo ombra, un lupo bandito, trofeo moderno di fucili e di cecità. Forse simbolo di una Natura che scappa dall’uomo e che non si fa più afferrare. Una Natura incompresa, in via d’estinzione, che si vuole vedere per poi uccidere. “Aspetta, aspetta, no, quest’uomo ha visto il lupo.””Non l’ha visto”. “Non l’ho visto”. “Di’ un po’, come sono le tracce, come sono le tracce di un lupo?”.
O forse il lupo è rappresentazione profonda e semplice delle nostre paure? Del nostro subconscio? Un lupo manifestazione della paura di un popolo nei confronti della propria solitudine e povertà, della perdita di senso della vita in una Germania d’inizio XXI secolo: una landa divenuta, quasi ancestralmente, dimensione in cui “i nani sono dei giganti.”
Sembra quasi un sogno dovuto ai vapori dell’alcol, in cui aleggia un qualcosa che mai appare, in cui si soffre e ci si perde. “D’inverno dal soggiorno di quella gente si intravedevano le tombe tra i rami degli alberi. D’estate era tutto verde e le tombe uno se le poteva solo immaginare”. Una morte sempre presente che si percepisce solo se fai attenzione.
Schimmelpfennig trasmette l’impressione di essere testimoni di una visione. Una rappresentazione teatrale in cui domina un fuoco di ghiaccio. Congelato. Un freddo a coperta di tutto, come quello che si sente nelle stazioni ferroviarie di notte, in inverno, quando si è soli e ci si guarda attorno con ansia, senza sapere bene perché.
Nel bosco, poi, un corpo-cadavere non si decompone. Giace riverso, sommerso da una neve che si accumula. Solo con il suo zainetto subito saccheggiato. Lungo un’autostrada un costruttore polacco che non riesce a vivere lontano dalla sua ragazza vede e fotografa col cellulare il lupo; due ragazzi scappano di casa, nella neve, lontani dal loro villaggio, seguendo le tracce del lupo; una donna al balcone, in una Berlino buia e quasi disabitata, brucia i diari della madre morta facendo volare i pezzetti carbonizzati nell’aria come un antico rituale, o per pazzia: spettro alcolico, in un mondo in cui “è tutto contaminato, qui, il terreno qui è tutto contaminato.”
“Come un diamante perduto”, disse […] a un tratto al padre del ragazzo prese qualcosa, un ricordo sfocato o forse una qualche sensazione, diventò malinconico, gli salirono le lacrime agli occhi e insieme alla malinconia gli venne una disperazione che lo scosse tutto. Si accese una sigaretta e continuò a bere grappa.”
Poi, come in tutte le fiabe, la storia finisce così com’è cominciata, dal nulla nel nulla, dal vuoto nel vuoto. Una fiaba che distrae qualche ora riportando sul palco uno squarcio di Germania solidificata. Così “…venne fuori il sole. Fu l’ultima volta che qualcuno vide il lupo, il giorno in cui si persero le tracce del lupo.”, così finisce la storia. Punto.
Libro strano questo di Roland Schimmelpfennig. Un libro freddo, invernale, sotto cui si nasconde un tenue fuoco: il tenue fuoco di chi continua ancora a crede che il lupo esista davvero. Che poi, diciamocela tutta: e se avesse ragione l’autore? E se questo lupo, innocente, evanescente, e al contempo, aggressivo e assassino, fossimo noi?
“Una città in preda all’esaltazione. I giornali, le prime pagine. Le televisioni locali. Una notizia che faceva il giro del mondo. Il lupo di Berlino. Gente, guardate com’è cambiata questa città. Der Wolf ist ein Berliner.”