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Indagare il dolore per il diritto di difenderci. Intervista a Paolo Sortino

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Paolo Sortino è nato a Roma nel 1982, da alcuni anni vive a Napoli. Ha pubblicato i romanzi Elisabeth (Einaudi), Liberal (Il Saggiatore) e racconti in volume (Minimum Fax) e rivista (Granta Italia, Rizzoli). È stato redattore e autore testi peri programma Chi l’ha visto? Il 20 settembre 2024 è uscito nella collana Interzona diretta da Orazio Labbate per Polidoro editore il romanzo Demone custode. Sta ultimando un nuovo romanzo che ha già avuto interessamenti editoriali.

Mario Schiavone

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Sortino, non dirmi che sei andato a dormire presto, o a camminare sui monti. Sii sincero: dopo il tuo primo folgorante libro, apparso per Einaudi e tradotto all’ estero, dove sei andato a riflettere per capire cosa stava diventando per te la scrittura? Vogliono saperlo i tuoi lettori.

Sorrido. Se dovessi rispondere con una frase dovrei dire Confesso che ho vissuto, ma sarebbe un’altra citazione e non se ne esce. Non solo non sono andato a letto presto ma ho messo a dura prova i miei cicli circadiani. Dopo l’esordio con Elisabeth, la cui scrittura ha coinciso con la massima espansione interiore della mia persona di allora, dovevo tornare fra la gente. Ero completamente identificato con lo scrittore che volevo essere, e sebbene ciò sia necessario per pensare di fare un buon libro, una volta soddisfatta l’urgenza di scriverlo ho avuto bisogno di misurarmi con gli altri sulla base di regole condivise. Così, poiché subisco il fascino dei gesti radicali, a compiere i quali ho una naturale propensione, non mi è bastato occuparmi d’altro, ho voluto spostare tutto di me sull’altra riva delle parole e delle cose. Avrei potuto cavalcare il successo di Elisabeth “vivendo da scrittore”, cioè componendo cose in cui non credo, collaborazioni con riviste, piccoli testi critici da disseminare qua e là, stringere mani, tentare di infilarmi nei gangli della cultura più o meno istituzionale, più o meno amicale, più o meno qualcosa, ma non mi interessava. La scrittura apre profondi processi di conoscenza, non mi basta usarla per tenermi a galla. Per restare a galla è sufficiente un lavoro, un mestiere qualsiasi, ed è tonificante fare un lavoro qualsiasi. Volevo guadagnarmi da vivere facendo qualcosa che mi mettesse in relazione con le altre persone, e che con la scrittura avesse nulla o poco a che fare, di modo da lasciarmela quale spazio di libertà. Così i primi tre anni di questi intercorsi li ho vissuti facendo mestieri diversi, quello che capitava, e sono andato appresso a una donna che per problemi suoi avrebbe da lì a poco avuto in odio la parola, la magia, la poesia, con un contesto familiare terrorizzato dalla bellezza e dalla sensibilità, e io invece di fuggire sono scivolato con lei nel baratro della meschinità verso noi stessi, quel male che a un certo punto nella vita decidiamo ci infliggerci. Ne parlo perché è una delle esperienze che racconto nel nuovo libro. I quattro anni successivi li ho trascorsi per riprendermi. Li ho vissuti con gli occhi dell’amore, rossi. Ho scoperto la ciclotimia, gli psicofarmaci, la psicoterapia. In quello stato mentale ho scritto un altro libro a cui tengo molto, Liberal, uscito con il Saggiatore, direttamente scaturito da Elisabeth e senza il quale oggi non esisterebbe Demone custode. Come dice un mio amico poeta, Carlo di Francescantonio, Liberal è uno dei pioli della scala evolutiva della mia scrittura. Certo non è un libro che facilita la lettura ma compone un dittico con Elisabeth: dopo un romanzo di profondità letterale, del sottosuolo, e di ritorno da una vicenda sentimentale che mi ha gettato nello stato mentale che ho detto, è nato un romanzo sul tema della superficie e del vuoto. Non un vuoto pneumatico, che nella vita non esiste. Un vuoto che scaturisce da contenuti che spingono indietro i precedenti. Un accumulo estetizzante e inutile che rende evanescenti le esperienze. In questi anni sono morti i miei genitori. Conosco l’orfanezza che, come canta Brassens, non bisogna essere bambini per sperimentarla, ma ho avuto modo di crescere spiritualmente e oggi vedo la morte come un’esperienza fondamentale. Dopo la psicoterapia ho lavorato per alcuni anni nella Redazione di Chi l’ha visto?, dove scrittura e vita, dimensione personale e relazionale si sono fuse completamente, dove ci si mette al servizio degli altri e le storie hanno il peso massimo che possono assumere nella vita reale. Stare in quella redazione è come vivere su Giove, dove la gravità è tale da trasformare il carbonio che precipita dal cielo in una quotidiana pioggia di diamanti. Lì ho toccato con mano lo specchio della mia sofferenza interiore. A volte è stata maestra nel comprendere quella degli altri, altre volte è stata allieva di dolori inconcepibili che le persone vivono ogni giorno dietro la patina delle convenzioni sociali. Ho visto la profondità del disagio e anche con quanta dignità uomini e donne provano ad affrontarlo, tentano di contrastarlo, spesso ne sono vinti, raramente ne escono vincitori. In letteratura non c’è nulla di paragonabile. Non c’è scrittore al mondo o nella storia che sia mai stato in grado di restituire una profondità umana così completa da somigliare anche solo vagamente alle storie vissute che mi sono state affidate. Lì la mia concezione del rapporto tra vita e letteratura ha ricevuto uno schiaffo notevole. Un riesame di quanto avevo scritto, svolto alla luce di questa nuova coscienza, avrebbe potuto polverizzare Elisabeth all’istante, invece resiste. Quel libro contiene la stessa verità intuibile che sul Caso Fritzl scriverei anche oggi. Ricordiamoci che Elisabeth è stata prima di tutto una ragazza scomparsa. Col senno di poi, devo dire che creando quel personaggio ho obbedito a un destino in cui l’esperienza successiva di Chi l’ha visto? non si è certo verificata per caso.

Da quell’immersione totale con la realtà è uscito fuori un uomo molto più bello, più serio e quindi più ironico, felicemente imperfetto, più concreto e allo stesso tempo più ispirato. Non ho mai abbandonato la scrittura in questi anni, neppure per un giorno. L’ho vista cambiare di segno, diventare più esigente verso l’uomo che sono, il cui scrittore inteso come compilatore attento e scrupoloso è solo una delle persone che gli vivono dentro, ma non è più il primo della fila. Ho cominciato a lavorare come ghostwriter, il che ha spalancato in me nuovi scenari in cui poter mettere sulla carta sia le astrazioni sia la concretezza, la commissione, il mestiere e la poesia bilanciati. Ho acquisito velocità, ho affinato la dimestichezza nell’attingere all’esperienza diretta come a quella visionaria. Oggi potrei scrivere un romanzo l’anno, non perché oggi accetti di estendere le pubblicazioni di romanzi a lavori perimetrali, che ho evitato dopo Elisabeth ed eviterei ancora. Solo si sono riunite in me le condizioni per scrivere senza mettermi di spalle al mondo. Così, mentre esce Demone custode, ho già quasi ultimato la stesura di un altro romanzo. E poi, apice di questo processo di interazione con la vita fuori dai libri, in questi anni mi sono sposato e sono diventato papà.

Sortino, quanto da te ribadito, riguarda il come scrivi. Ma tu, e mi raccomando niente trucchi da quattro soldi nella risposta, perché scrivi storie?

Anni fa avrei risposto prontamente, con un pensiero meditato. Oggi, dopo le esperienze che ho detto, non sono sicuro di sapere perché scrivo. Comincia a non essere più una domanda fondamentale. Scrivere non è un’attività che ha bisogno di una motivazione cosciente, voglio dire. Ti rispondo allora attenendomi a ciò che provo quando scrivo. Sperimento molti stati d’animo e di coscienza, dalla sofferenza che percepisco nel corpo all’esaltazione, dalla commozione all’aggressività, che riesco a incanalare e rendere costruttiva. È bello provare così tante emozioni e così continuo a scrivere per provarle nuovamente. Poi mi esprimo per iscritto fin da quando ero piccolo e è un modo per restare in contatto con me stesso; in questo senso è un’abitudine. Infine, per via della ciclotimia, la pagina è lo spazio in cui posso adottare il mio comportamento ipomaniacale. Mi dà modo cioè di intripparmi dentro qualcosa in cui mettere ordine, in modo minuzioso. Soffro di un ritardo del linguaggio che la pagina mi permette di compensare ordinando i pensieri e le parole con maggiore tempo a disposizione di quanto me ne diano la vita sociale e la comunicazione in tempo reale. È un altro argomento che i lettori troveranno nel Demone.

Sciamani, Profeti e altri grandi Maestri di strada di questo comico Paese ci dicono da anni che scrivere non cambia il mondo. Eppure loro non smettono di scrivere libri, anzi: ci danno dentro, alimentano la fame della bestia editorial-capitalistica. Nel tuo piccolo, scrivere, a te cosa ha dato?

In un certo senso ho già risposto. Soddisfo quel bisogno di mettere ordine, che poi in realtà è contemplare il disordine, avere una visione d’insieme di emozioni, percezioni, stati della coscienza. Scrivere mi dà modo di elevarmi sulla mia decadenza, che lambisce i bordi del tavolo su cui scrivo e la poltrona su cui leggo. Alla fine vince sempre lei, ma mi rialzo e provo ancora.

Quanto alla bestia editoriale, come la chiami tu, non la vedo così feroce. Il mercato è un fenomeno complesso che trovo molto interessante studiare. Incredibilmente c’è ancora chi confonde il mercato col commercio, col vendere – che pure è affare complesso, basti pensare ai librai, all’impegno che ci mettono, una cosa che tu conosci bene. Il mercato è l’insieme non solo degli scambi e delle compravendite ma anche delle ragioni per cui si fa o non si fa un libro, dello scriverlo o meno, persino. È l’insieme delle pratiche di lavoro consolidate e sperimentali, di creatività, di tecnica, di conoscenze specifiche, di relazioni, e tendenze, e speranze. Se ti immedesimi per un momento con un editor capisci la valenza culturale che ha ideare libri, accogliere o non accogliere nuove opere in catalogo, lavorarci, migliorarle, promuoverle, avere successo, sbagliare. Fosse solo che vuoi pubblicare libri di cui non devi vergognarti, ecco che trovare un equilibrio fra queste cose è un lavoro duro. Mi pare di intuire che un editor utilizzi il suo lavoro come linguaggio, esprime un approccio alla vita, alla società, mette al mondo un bene che riflette la sua visione ma vuole essere anche un bene per gli altri. Un processo per il quale si rischia molto ogni giorno e passa come una pratica abitudinaria ma non credo lo sia. Non può esserlo. Che poi è quello che tutti tentano di compiere col proprio lavoro, quale che sia, ma quella che scaglia l’editor è una freccia invisibile che fende direttamente la cultura del proprio tempo. Credo che uno scrittore consapevole non possa non farsi domande di mercato. Ovviamente dalla qualità di queste domande dipende direttamente la qualità delle scelte e delle azioni successive, comprese quelle artistiche. Il che non significa scrivere secondo una ricetta per vendere di più, che non esiste, ma vuol dire, in ultima analisi, tentare di comprendere meglio la comunità di lettori ai quali si rivolge. Se non mi importasse della comunità di parlanti di cui faccio parte e se non fosse essa stessa parte dello studio che sottostà al mio lavoro di scrittore, con la mia concezione delle cose non scriverei proprio.

Una domanda dolorosa, non volermene, ma necessaria. Le persone guardano True Detective, poi leggono Pizzolatto e Ligotti e dicono: ecco il male, questo mondo immondo contiene anche questo schifo. Eppure non direbbero mai: gli autori di questa roba sono dei malati. Non avrebbe senso. Eppure, quando è uscito Elisabeth per Einaudi, qualche lettore italiano ha insinuato sui social che ” il male non va raccontato nelle storie.” ( Ndr Adattamento necessario rispetto alle accuse violente che ti hanno mosso sui social.)Questo genere un cortocircuito incredibile: il male può essere usato contro gli umani, non si deve raccontare nelle storie. Faccenda, a mio avviso, che poteva essere così generata, solo in un Paese dove ha sede anche quel preciso stato religioso. Riscriveresti oggi quel libro? Indagheresti ancora, con la tua efficace scrittura, Il Male?

Il male indaga noi, ogni giorno. Indagarlo a nostra volta esprime prima di tutto il diritto di difenderci. Devo dire che a me manca qualcosa, sia di preparazione culturale che di cognizione, per apprezzare certe opere del visuale. Le immagini dirette, permettimi di chiamarle così (tolte quelle delle arti figurative e plastiche), sortiscono in me effetti trascurabili, mentre le immagini mentali, quelle che la parola riesce a generare nella nostra interiorità, mi toccano nel profondo. La crosta di sangue rappreso dei lebbrosi che Caterina da Siena racconta esserle rimasta sul palato dopo aver leccato e baciato i piedi di quei malati, come un’ostia che non riesce a deglutire, e che per lei è un momento di estasi erotica al pensiero di fondersi totalmente col corpo di Cristo, mi ha lasciato dentro una vertigine che nessun thriller televisivo ha mai eguagliato. Mi sono masturbato su quelle pagine non so quante volte, lo dico senza scandalo. Davvero, ho un’erezione istantanea ogni volta che le rileggo. Ora, questi miei limiti verso le immagini dirette o dinamiche (tv o cinema non fa differenza), credo rappresentino in modo lampante ciò che nella maggioranza delle persone è solo latente ma presente comunque, e cioè che sono in realtà sempre rassicuranti. L’occhio è tra gli organi più antichi nell’evoluzione, è il più allenato a tollerare ciò che c’è intorno. Mentre l’occhio interiore, chiuso e dormiente, svegliandosi attraverso l’evocazione della parola resta impressionato molto più a fondo e in modo più durevole. Non sto dicendo che l’arte della parola scritta per essere letta sia superiore, non si tratta di questo. Si tratta di acquisire la nozione che visibile e invisibile costituiscono una dualità che l’essere umano in cuor suo spera di superare. Se il mondo in cui viviamo moltiplica le immagini dirette, conseguenza naturale è che l’invisibile che appare in noi sia tendenzialmente più potente. Più osserviamo, più abbiamo bisogno di essere osservati. Questo fa la scrittura, legge il mondo, legge i lettori. Come dicevo più su, Elisabeth resiste alle cose che ho imparato dall’esperienza di Chi l’ha visto? Lo riscriverei identico, e in generale continuerò a indagare il male perché non ho posizioni o punti di osservazione sicuri. Siccome posso dire di non averne nella vita come nella scrittura, è probabile che il male finisca tra le cose che osservo. Allo stesso tempo, però, vedi, c’è un modo per contemplare il male che credo sia più interessante e più adulto: quello di non categorizzarlo, non illudersi di averlo individuato. Scrivere tentando di andare al di là del bene e del male è assai più fruttuoso, si porta dietro molte più cose.

Sortino ti sei mai finto comune lettore per entrare in una libreria e comprare un tuo libro nel pieno anonimato? Come è andata?

Non ho acquistato copie dei miei libri in libreria però è capitato che abbia chiesto al giornalaio vicino casa di mettermi da parte due copie dell’edizione di Elisabeth uscita col Corriere della Sera. Quando mi ha chiesto a che nome avrebbe dovuto metterle da parte, ho dato quello di mia moglie, perché mi vergognavo di essere l’autore che compra il proprio libro. Al che ha fatto una faccia perplessa, ricordando che in passato avevo dato il mio affinché ordinasse per me altre opere. Ho dovuto quindi spiegare la ragione, a occhi bassi, e quando li ho risollevati me lo sono trovato davanti; era uscito dall’edicola per abbracciarmi. A Napoli certe persone sono così.

Sortino quali sono i tuoi autori di romanzi che consideri Maestri Immortali di riferimento?

Gustavo delle Noci. Il suo romanzo Bovini adulti mi ha cambiato la vita. Su, se dovessi dire gli autori che mi hanno emozionato e illuminato uscirebbe un elenco veramente infinito. Allo stesso tempo nessuno di loro è stato per me un punto di riferimento per scrivere. Quando da piccolo dissi a mia madre che sarei stato uno scrittore, che lo ero già ma non sapevo cosa scrivere, ché mi mancava una storia, lei mi propose di fare esercizi di scrittura. Per lo più descrizioni di nature morte, poi di paesaggi, poi imitazioni degli stili dei grandi scrittori. Il fine di quegli esercizi, diceva, era impadronirmi dell’economia di un testo, sviluppare un senso dei dettagli e delle proporzioni interne. Il contenuto contava poco, un giorno avrei avuto il mio. Prima avessi fatto miei quegli stili, prima me ne sarei liberato. Quegli esercizi hanno accelerato in me il processo di ricerca di autonomia stilistica.

In modo cauto ma sincero, senza fare nomi, ti mostro una notizia di cronaca di due giorni fa. Parla di diritto allo studio per i bambini, di un imprenditore che dona kit scolastici, di un artista musicale che si presta per consegnare i kit, di uno storico quotidiano italiano che rilancia la notizia come grande gesto altruistico. Non citare nessuno di loro, analizza la foto che ti mostro e dimmi che rapporto hai avuto con la scuola fin da piccolo.

(pensi che la scuola italiana abbia dato dignitá a te studente del sistema pubblico? Che quel sistema ti abbia permesso di scoprire la lettura e la scrittura? Senza aver frequentato scuole pubbliche saresti oggi uno scrittore?)

Sono assolutamente certo che gli strumenti per così dire tecnici per scrivere, tutti gli strumenti, io li abbia acquisiti entro la prima media inferiore. Quelli cognitivi me li ha dati la vita; il ritardo del linguaggio che ho detto e l’ipomania hanno fatto il resto. La mia maestra Grazia Gallinari ci faceva leggere i classici e i contemporanei, cominciando da questi. Quando ad alta voce lessi in classe Una cosa che comincia per elle, di Buzzati, ricordo che piansi di una gioia povera e immensa, incontenibile. Mi emozionai così tanto che per giorni non feci altro che rileggerlo. In classe con lei facevamo una serie di attività oggi impensabili. Adottava la maggioranza delle strategie didattiche che la ricerca pedagogica attualmente pone fra le fondamentali. Dal circle time alla scuola senza zaino, dalla peer education alla cosiddetta classe rovesciata erano cose per noi scolari all’ordine del giorno. Oggi i governi italiani non si preoccupano neppure di interpellare i pedagogisti, se non scegliendone uno, o due, che portano acqua al loro mulino. Non li interpellano in blocco, se no riceverebbe troppe indicazioni e troppo chiare sul da farsi.

Poi in prima media ebbi come professore Mimmo Italiano, che mi insegnò la potenza dei miti e dell’epica, un punto di svolta per comprendere che ogni forma di progresso deve poggiare sulla Tradizione e che nella scrittura l’io piccino, biografico deve sparire per far posto ai personaggi.

Oggi mi pare che gli istituti siano lasciati a sé stessi. Dopo la grandiosa legge che nel 1977 annullò le classi differenziali non è più accaduto nulla di significativo nella Scuola italiana. Ti deve dire culo. Devi capitare nelle mani di educatori che senza l’aiuto di nessuno si ostinino a fare del processo di insegnamento/apprendimento non il rispetto dei programmi di studio, che sono miserrimi, ma di avviamento alla vita. C’è questo gran bisogno di gesti eclatanti, di altruismo manifesto, ma è brutto segno. Questi valori e virtù dovrebbero essere quanto di più normale.

Seconda parte dell’intervista: Otto domande su “Demone Custode” (e altri demoni)

Nel tuo ultimo libro, Demone Custode, affronti – in un tesissimo corpo a corpo con la scrittura – la vita e la morte. La scomparsa di una madre e la nascita di un figlio: cosa scatena, nella penna e nella pena di chi scrive, una frattura che – nasce dal buio e trovando la luce – diventa materia scritto di questa portata?

Prima di tutto fammi dire che il corpo a corpo non avviene con la scrittura. La scrittura è un’alleata. Lo scontro avviene con le viltà dell’essere umano, per osservare le quali guardo alle mie. Cosa scateni questo processo non so dirlo con esattezza. Scrivendo questo libro ho avvertito, come del resto mi è capitato per le poche cose che ho scritto finora, che il fluire della scrittura a un certo punto si autoalimenta. Beck e Emery ne L’ansia e le fobie raccontano di un caso clinico in cui una scrittrice non riusciva più a scrivere. Insieme visualizzarono il lavoro di scrittura come lasciar defluire acqua da una cisterna. All’inizio è torbida, limacciosa, poi via via si fa più limpida. Ecco, se scrivi abbastanza da vederla farsi limpida, non osi certo chiudere il rubinetto. E non devi fare nulla perché ciò avvenga se non metterti al tavolino ogni giorno, con un principio di disciplina che lascia presto il posto all’esperienza di conoscenza che ne ricavi e al quale ti abbandoni senza opporre resistenza. Rivivere il dolore e incontrare la gioia di trovarvi un qualche senso è un volo senz’ali del quale godi e soffri intimamente e lasci che ti porti lontano.

Questo mondo evolve, eppure appare caotico, oltraggiato, affamato, incarognito, e in definitiva prossimo a una involuzione (distruzione sociale totale?) o a una rinascita rivoluzionaria (è possibile che il filone narrativo del solar punk avesse in qualche modo profetizzato un futuro credibile?); eppure l’io narrante di Demone Custode è altro da sé, sorvola cose e persone, Storia e storie per offrire una rivelazione. Quanto è autobiografico quest’ultimo disvelamento e/o quanto mimetizzato nella mitopoiesi narratologica?

Guarda, dopo l’incipit fulminante di Troppi paradisi: «mi chiamo Walter Siti, come tutti» l’autobiografismo continua ad avere senso solo se ti ostini a credere che si possa fare un resoconto fedele della propria vita, ma devi avere di questa una concezione e una visione lineari, cosa secondo me illusoria e comunque poco interessante. Credo che a nessuno potrebbe fregargliene di meno di sapere cosa ho vissuto (ammesso si possa circoscrivere ogni singolo accadimento, trattarlo come tale, e appunto non lo credo), se non perché io ne faccia una sublimazione universale, come scrivo nel libro. Quella sublimazione che rispetta gli accordi taciti presi col lettore all’alba dei tempi. Una sublimazione a cui non interessa fotografare la realtà com’è – e che nessuno in verità conosce – ma quella che può diventare. Allo stesso tempo, la rivelazione a cui fai riferimento è autentica, l’ho esperita, la porto sulla pelle, ed è proprio ciò su cui poggia quella sublimazione: della mia stessa vita non mi importa quanto mi importa del bello che intravedo, fatta esperienza del quale posso anche morire. Questo è il messaggio del libro. Non una mia convinzione aprioristica, quanto la scoperta che ho fatto scrivendo. Il libro ha una sua simmetria piuttosto precisa, spontanea. Il demone e l’angelo custode, la morte della madre e la nascita della figlia, la morte del figlio che sono stato e la nascita del padre che sono oggi, lungo direzioni incrociate. Così si direbbe che ci siano due “io”, nel libro. Col procedere delle pagine uno cresce a discapito dell’altro. Perisce quello biografico (che vede sé stesso come oggettivo, ma è un illuso); di contro si espande quello che accetta il divenire delle cose e della vita. Ma di io può essercene uno solo, non è così? Cos’è allora quell’entità che percepiamo come un io e che invero non lo è, giacché trova liberazione mortificandosi? È certamente l’ego.

Quanto al mondo incarognito, scrivo nel libro che il modo più vero per amare una persona è quello di cui diventiamo consapevoli quando non ci è dato esprimerlo. Immaginando di osservare la persona amata dall’al di là, come fossimo morti, senza che ci sia più dato di interagire con lei, agire per spingerla via dall’auto in corsa che potrebbe investirla, ci rimettiamo indistintamente a dio e al mondo, che improvvisamente ci apparirebbero come la stessa cosa, purché ciò che le è più prossimo la protegga. Quel mondo che a volte abbiamo guardo con disprezzo dall’alto in basso diventa ciò a cui rimettiamo tutte le nostre preghiere. Tu capisci che tornando da questa immedesimazione hai per il mondo una nuova speranza. Altra cosa che esprimo nel libro è che le “schifezze” entro cui si dibatte il mondo, inteso come società umane, a me appaiono più come quelle organiche in cui vive un feto che non un cadavere. Si tende a credere che il mondo sia vecchio, decrepito. A me pare ancora solo un abbozzo. È tutto ancora da fare, la morale naturale ancora tutta da conoscere. Il mondo deve ancora nascere e c’è molto per cui agire.

Come, dove e quando hai lavorato alla scrittura di Demone Custode?

Era d’estate, 2022. Mi trovavo all’ospedale di Avezzano con mia madre in fin di vita e mia figlia in braccio, che aveva sei mesi, quando ricevo una telefonata di Orazio Labbate, lo scrittore di cui avevo stima ma col quale avevamo avuto anni addietro credo solo un’occasione per parlare. Aveva dato il via a una collana, mi spiegò, che si chiama Interzona, che prende il nome da quell’opera totale di Burroughs il cui immaginario ci ha segnato tutti. Mi illustrò il progetto e mi chiese se avessi pronto o volessi scrivere un testo per prendervi parte. Il primo moto interiore fu che non avrei mai voluto parlare di libri e letteratura in quel momento. Mia madre mi raccontava del padre, defunto, che andava a farle visita in ospedale, la sera, con tutta la tenerezza che si può vivere di fronte a nostra mamma che se ne sta andando. Orazio si preoccupò di starmi accanto. Lasciò cadere la proposta rimandandola a momenti migliori e riuscì a darmi un po’ di consolazione parlando comunque di libri, sapendolo fare, a dimostrazione che egli vive davvero di letteratura e che le opere sono in sé stesse un linguaggio che possiamo usare per dirci ciò che una verbalizzazione all’impronta non potrebbe. Mi parlò sensibilmente. Non lo sapevo, in quel momento, ma avevo un bisogno tremendo di esprimere a qualcuno il mio stato d’animo; qualcuno che non appartenesse alla cerchia degli affetti primari perché questi capiscono tutto subito, partecipano dello stesso dolore in prima persona e il tuo bisogno di esprimere i sentimenti, che è parte dell’elaborazione del lutto, resta insoddisfatto. Mia madre morì due mesi dopo. Orazio mi chiamava ancora, non aveva mai smesso di farlo. Così, via via, colsi l’occasione che mi dava per riversare sulla pagina tutto ciò che provavo a seguito del lutto. Da quel momento mi ha lasciato lavorare nel silenzio necessario. Quando mi richiamò era trascorso un anno e non avevo scritto una riga. Lui seppe essere l’amico e il professionista, il compagno di sventura e l’editore. Mi parlò del bisogno di concretezza che sta alla base della scrittura, ed è stata una manna, perché quello scossone era ciò di cui avevo bisogno per tornare alla mia vita. Precisamente questo era la materia che compresi dovevo raccontare, e così, in meno di un mese ho scritto questo libriccino.

Demone Custode è un libro breve, eppure potente. Affilato nella scrittura, per nulla autocelebrativo, alquanto irritante per la sua sfrontatezza di contenuti e stile. Mentre lo scrivevi hai immaginato questa storia come il tentativo di ripristinare un dialogo con i tuoi lettori che da anni aspettavano un tuo nuovo libro?

Non penso mai ci sia qualcuno in attesa di un mio libro. Ci sono persone felici di sapere che pubblico una nuova storia, questo sì. Persone che mi hanno scritto dopo l’uscita dei libri precedenti e hanno voluto mantenere un rapporto nel corso degli anni, e che anche oggi esprimono affetto e stima per il mio lavoro.

Cosa avresti aggiunto a Demone Custode e cosa avresti sottratto? per meglio dire: rileggi mai, a distanza di tempo, i libri che hai pubblicato? Secondo te, fra alcuni anni, cosa dirai a te stesso rileggendo queste pagine?

Non rileggo le cose che scrivo una volta pubblicate. Le storie sono veramente come figlie che a un certo punto vanno nel mondo. Belle o brutte che siano agli occhi degli altri speri solo che qualcuno le ami.

Cosa penserò a distanza di anni di questo libro? Mi farò la stessa domanda che mi pongo sui precedenti: ma di chi cavolo è la voce che me lo ha dettato?

Che tipo di (futuro) lettore avevi in mente scrivendo Demone Custode?

Devo dire che in mente ho una lettrice, non un lettore. Dipende dall’aver appreso, negli anni, che la maggioranza delle persone che hanno letto i miei libri sono donne. La lettrice che ho in mente somiglia molto alle pendolari che da Napoli tutte le mattine vanno a Roma per lavoro e osservo sui treni. Due ore tra andata e ritorno, con otto ore di lavoro nel mezzo e ciò nonostante non rinunciano alla compagnia di un libro. Quasi sempre un libro breve, essenziale, di cui scruto copertina e titolo e poi mi vado a leggere per sapere qualcosa in più di loro.

Che tipo di narratore è quello che si racconta attraverso le pagine di Demone Custode?

Il narratore è un certo Paolo Sortino. Chiunque egli sia è sempre lo stesso, sempre diverso  canta Guccini  ma anche io posso dirlo di me. Non a caso ogni mio libro è totalmente diverso dal precedente. Anche questo che sto ultimando e consegnerò a breve va in tutt’altra direzione. Il personaggio del Demone, invece, l’io narrante, è un ciclotimico con disturbi dell’umore, disturbi dell’amore, ritardo del linguaggio, con una sessualità esasperata e deviata, ma invaso di amore autentico e disperato per la verità che deve trovare.

Come hai individuato editore e collana giusti per un libro anomalo e coraggioso come Demone Custode?

Come detto più su, è l’editore, Orazio che ha cercato me e gliene sono grato. Senza di lui non avrei scritto questo libro che rappresenta una svolta nella mia scrittura. È il frutto di una felice imperfezione con la quale ho fatto i conti, accogliendola. Il cesellatore di frasi, che pure c’è ancora, ora scrive in collaborazione con un autore più spontaneo, più materico. Ai dipinti ad olio si aggiunge così il bozzetto, non preparatorio di un’opera più complessa, programmata e orizzontale, ma definitivo in sé, pur nel suo tratteggio rapido ed estemporaneo. Questo testo risponde più al gesto artistico che non alla composizione ordinata. È tutto verticale, e graffiato, con sbavature che fanno parte del paesaggio ma è autentico così. È per me l’equivalente dell’action painting. Un action writing, diciamo così, frutto di lunghe conversazioni con Orazio e di un intervento deciso da parte mia sulla mia coscienza.

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