Massimiliano Santarossa ha regalato a Satisfiction questo suo testo dedicato a Michel Houellebecq. Il testo proposto, uscito in forma ridotta sul quotidiano “La Città”, rappresenta dunque la versione integrale, e quindi inedita, di quello che possiamo definire un piccolo saggio dedicato all’autore del recente Cahier.
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L’antologia tributo
Non ho mai nascosto la mia simpatia (e pertanto seguito intellettuale) verso Michel Houellebecq; tal condizione nasce però ben prima che conoscessi Houellebecq e, in sintesi, risale ai tempi delle letture che in maniera impavida conducevo nel fondo di un capannone industriale, dietro la schiena d’una pressa, innamorato, io giovanissimo tagliatore di materie plastiche, di Schopenhauer, che spesso tornerà nei testi dell’autore francese. Il rapporto con Houellebecq, per quanto mi riguarda, prende quindi corpo ben prima che diventasse lo Scrittore di fama mondiale, amato e odiato, criticato e idolatrato, senza pari, nell’epoca attuale.
E proprio in tal senso, è uscita da pochi giorni anche in Italia “Cahrier”, l’antologia monumento “su” Houellebecq (e non “di”, formato simil A4, 390 pag., 30 euro, La Nave di Teseo editore). Ora, in queste pagine, vorrei esprimere una considerazione, di certo non richiesta, pertanto già fallimentare in essere. Tuttavia, dalla lettura di tale monumento editoriale alla “vita” dello scrittore francese, mi restano addosso molti sentimenti, e allora eccoci qui.
I principali sono però rari e come tutto ciò che è raro, risultano potenti.
1) fortunatamente, Houellebecq con la sua opera ha messo in ombra l’oramai superato, a volte addirittura infantile, “postmodernismo”, movimento letterario ombelicale, pigro metodo di trattare la condizione umana attuale: poco studio, troppo sentimento.
2) la gran parte del lavoro dello scrittore francese si rifà, e in qualche modo annuncia, il ritorno, o approdo che dir si voglia, a un “neo-naturalismo” (potrebbe essere definita l’ulteriore scelta conservatrice dell’autore, ma sarebbe un errore liquidarla così), anticipatore ma anche seguente al realismo, cioè a una letteratura, laddove necessaria, anche “scientifica” (centrali i suoi studi all’Agro), in grado cioè di narrare con precisione la condizione umana, nell’utilizzo della storia, di raffronti, di considerazioni, di dati, di esempi, etc. Dalla lettura di “Cahrier” si può ben trarre un invito: dài scrittori, basta giocare coi sentimenti, diventate adulti, nella vita.
3) le innumerevoli considerazioni su Houellebecq, positive o negative, in tale antologia, mai si discostano da un concetto: siamo francesi e la cultura francese è millenaria. Quindi possiamo fare elogio o disprezzo, ma restiamo francesi. E di noi parliamo noi.
4) possiamo naturalmente ampliare tal proposito alla cultura italiana. Ancora troppi scrittori risultano radicalmente provinciali. Noi, che da Dante, Boccaccio e Petrarca in poi, possiamo impartire lezioni all’umanità, siamo oggi a rifarci agli “americani”, come esempio e peggio come punto d’arrivo. Che sia anche questo il ritorno ai “nazionalismi” di cui spesso fa cenno Michel Houellebecq? Cioè un ritorno culturale?
La strage. E la “Sottomissione”
Parigi. Mercoledì 7 gennaio 2015. Ore 8:30. Le librerie della capitale aprono al pubblico. Nelle vetrine e sugli scaffali hanno appena esposto le copie del romanzo più atteso dell’anno, di cui l’intero paese parla da settimane: “Sottomissione” di Michel Houellebecq. Passano alcune ore. Alle 11:30 due terroristi mascherati e armati di Kalasnikov irrompono negli uffici del settimanale “Charlie Hebdo”, urlano, invocano Allah: «vendetta, vendetta per Allah». Ciò che accade pochi istanti dopo è noto al mondo intero. Una carneficina. L’attentato terroristico più violento da decenni a questa parte in Francia. Cosa lega il romanzo “Sottomissione” alla rivista satirica “Charlie Hebdo” è una vignetta in copertina, dove Houellebecq viene ritratto come un visionario, e la visione è la Francia «sottomessa all’Islam».
Nella stessa giornata arriva la notizia che lo scrittore è messo sotto scorta armata, che ha interrotto la promozione del libro, che si è allontanato da Parigi, probabilmente abbandonando il paese. Ma va chiarito un punto: è un errore etichettare “Sottomissione”, come da più parti fatto, come l’opera in difesa dei valori occidentali. Houellebecq, è ben facile intuirlo, basterebbe leggerlo, non si riconosce e tantomeno promuove gli «ideali di quest’epoca», e non è nemmeno un’opera polemica, anche su questo punto fa chiarezza lo stesso autore: «non scrivo per polemizzare, scrivo per dire ciò che l’essere umano è diventato». Il romanzo altro non è che il proseguimento del percorso di narrazione dell’Occidente, «dell’uomo occidentale», delle sue paure, delle sue fragilità, della sorda e muta violenza che compie puntualmente verso se stesso e verso ciò che lo circonda: la propria nazione, il proprio continente, il mondo intero. Ci torneremo più avanti.
Gli inizi. L’uomo. La fama planetaria
Houellebecq (vero nome Michel Thomas, Saint-Pierre, 1956), fin dalle prime poesie si dichiara figlio innaturale e vittima del Sessantotto, e ciò tornerà lungo la sua opera, e sotto vari aspetti, sia intimi che sociali; i contrasti furiosi con la madre, donna visceralmente sessantottina, scaturiscono nell’infanzia e nella prima giovinezza e ne segnano la vita e inevitabilmente le scelte letterarie. L’esordio è da poeta (classico, spesso in versi alessandrini, con “Restare Vivi”, 1991, e seguenti varie raccolte, ripubblicate nell’antologia “La vita è rara, tutte le poesie”, 2016) tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi dei Novanta, e di seguito come scrittore qualche anno dopo, con “Estensione del dominio della lotta” (1994), tra i più lucidi romanzi sulle storture del mondo del lavoro contemporaneo, sull’impossibilità di affrontare ogni tipo di produzione restando pienamente umani, mettendo in scena un trentenne analista programmatore in una società di informatica, dall’esistenza indifferente fatta di viaggi d’affari, tensioni nervose e prigioni insuperabili innalzate dall’amore e dal sesso irrealizzati. Romanzo di “contro-formazione”, perciò alla non-vita, alla noia, all’indifferenza sentimentale, malattie che opprimono intere generazioni.
“Le particelle elementari” (1999), l’opera che lo ha reso uno dei protagonisti della letteratura mondiale, ritratto di vita di due fratelli tra loro incompatibili, Michel e Bruno, i suoi personaggi forse più riusciti, legati da sofferenze famigliari, l’abbandono dalla madre su tutte (stessa sorte dell’autore, cresciuto dalla nonna), scienziato glaciale il primo e schiavo di pulsioni sessuali il secondo; assieme compongono il ritratto lucido e drammatico di quanto le scelte della vita possano incidere a fondo l’animo; esseri umani schiacciati dall’ambiente inospitale: l’occidente dominato dal caso, dove i desideri sono solo dei prodotti pubblicitari, televisivi, irreali. Un’opera che è lo sguardo distaccato e lucido sul corpo agonizzante della società moderna.
Dopo due anni, con “Piattaforma nel centro del mondo” (2001), pone l’Europa di fronte alle proprie brutalità del turismo sessuale, dallo sfruttamento barbaro che frotte di uomini compiono su giovanissime ragazze tailandesi, usate e abusate come pasto quotidiano di una fame sessuale che è «la fame dell’Occidente». Tutto viene visto, vissuto e registrato dagli occhi di Michel, quarantenne alle prese con la decadenza del proprio corpo, intento a fondare con la nuova compagna Valérie «l’unico paradiso terrestre possibile»: una rete mondiale di villaggi turistici del sesso libero, della prostituzione legalizzata. Pagine che sono il viaggio nei meandri del consumismo sessuale, nuova frontiera di commercio degli esseri umani.
“La possibilità di un’isola” (2005) è forse l’apice dell’autore francese; in esso tratteggia il futuro dell’umanità continentale attraverso una notevole, a tratti scientifica, analisi sulla clonazione umana, neo-uomini, perfezione fisica e mentale raggiungibile unicamente nella solitudine assoluta, superamento dell’uomo a opera dell’uomo stesso: «La clonazione ci sarà. Certe cose sono irreversibili. Tutto quello che la scienza può permettere sarà realizzato, anche se ciò modifica profondamente quello che noi consideriamo oggi come umano, o come auspicabile».
Del 2010 è “La carta e il territorio”, vincitore del Premio Goncourt, romanzo in cui torna a rivolgere la propria attenzione alla Francia, in particolare alla vita metropolitana sprofondata in storture quotidiane, con la voce di Jed, giovane artista legato al poco che gli resta della vita: minimi atti quotidiani come la rottura della propria caldaia che lo ossessiona da mesi, una vita tra le mura del mini-appartamento da dove fatica sempre più a uscire, i quadri che non riesce a portare a termine, il rapporto con ciò che resta del proprio quartiere e il dialogo gelido e irrealizzato con un padre noto e stimato architetto, per poi vivere di colpo un successo dirompente e inatteso da artista e la conseguente esplosione della ricchezza, l’amore per una donna, la morte che inizia a circondarlo e infine l’avvento di uno scrittore che si prenderà la scena della parte finale della sua vita e del romanzo: Michel Houellebecq stesso, in una narrazione a più piani, tra l’autobiografia e l’invenzione visionaria.
Houellebecq oggi
“Sottomissione” (2015), “Serotonina” (2019), e l’ampia antologia “Cahrier” (2019), sono il punto di arrivo di una intera esistenza letteraria; e di riflesso il punto di arrivo del percorso dell’uomo occidentale, che nella narrazione “houellebecquiana” è l’ultima stazione dell’Occidente stesso, nei diritti consumati e nelle libertà perdute.
Il protagonista è un professore universitario quarantenne, Francois, rigirato in se stesso, incapace di amare, ubriaco di noia e alcol, cinico; un uomo che potrebbe sentirsi realizzato, ma che invece è infelice, alla radice, che si affonda da solo, ma non per scelta, bensì per incapacità alla gioia. Vive in una nazione decadente e detestabile, non la riconosce come sua, da anni, anzi da decenni, da sempre, figlio illegittimo dei luoghi e dell’epoca. Nel 2022 assiste alla vittoria politica del nuovo partito dei “Fratelli Musulmani”, che governeranno la Francia grazie all’alleanza con quel che resta del Partito Socialista e del Centro, guidati dal musulmano moderato Mohammed Ben Abbes. Houellebecq tratteggia una Francia che si arrende «dolcemente all’Islam». Il paese delle libertà, la culla dell’illuminismo, è dipinto come una nazione sfinita da decenni di immobilismo politico, sociale, economico, schiacciato da una razionalità esasperante, dove ragione e laicità son perduti. Tanto da condurre il protagonista, per motivi di convenienza, a seguire il destino della maggioranza della popolazione: la conversione, “Sottomissione”, all’Islam.
Infine, accantonando i più vasti temi politici e concentrandosi nuovamente sull’uomo e la sua quotidianità, nel 2019, dopo quattro anni di scrittura, dà alle stampe “Serotonina”, nel quale il protagonista (medesimi studi dell’autore, stessa età) narra la depressione che lo consuma da decenni, profonda, tanto spirituale quanto fisica; metafora letteraria della “depressione” dell’uomo moderno (occidentale, naturalmente): perdita della spinta vitale, abbandono alla noia, quindi alla morte (ecco Schopenhauer che ritorna). Null’altro che l’Europa, per come la conosciamo.
«L’umanità è fatta così, tutto qua», continua a scrivere da vent’anni Michel Houellebecq. Con tutta probabilità il più importante scrittore dei tempi moderni.