«Ricordati di guardare all’oxer profondo come a un falso oxer.» Nella massima che l’insegnante di equitazione è solito ripetere a Mara, è racchiuso il senso di questo racconto inedito che Claudia Petrucci – autrice del romanzo L’esercizio per La nave di Teseo – regala a Satisfiction.
Si tratta di un testo dove si mescolano speranze, suspense e desideri di una giovane donna alle prese con il superamento di un’insieme di prove che la vita le pone innanzi. Deve riuscire a effettuare con il suo cavallo Ali un “oxer profondo” e allo stesso tempo “saltare” molto più in alto di quanto lei stessa, forse, si ritiene in grado di fare. Anche perché la vita della sua famiglia deve affrontare un salto decisivo e spetterà a lei prendere in mano le redini di una situazione che non può rischiare di precipitare. Così per salvarsi in questa corsa a ostacoli e per scongiurare il pericolo di cadere, dovrà fare appello a una tecnica infallibile: ricordare ciò che è, senza lasciarsi ingannare da ciò che potrebbe sembrare.
Claudia Petrucci con il suo incedere narrativo pieno di colpi di scena, intriso dell’eccezionale capacità di raccontare i turbamenti dell’anima e le proiezioni sulla realtà, in questo denso racconto inedito pone l’attenzione su quello che può nascondersi dietro a una logica apparente, mettendo a nudo sentimenti disarmati, per questo del tutto veri come soltanto possono essere le emozioni una volta private di uno schermo rassicurante. Per scongiurare il pericolo di rimanere paralizzati da un salto che esige un coraggio e una preparazione straordinari ma che soli non possono bastare di fronte agli inevitabili imprevisti della corsa all’esistenza.
Silvia Castellani
#
“Nessun cavallo ci obbedirà per compiacerci, tanto meno per senso del dovere, lo farà unicamente per evitare il dolore, rispondendo ai segnali che precedono l’uso di strumenti che possono provocarlo e che – all’occorrenza – lo produrrebbero fino a costringerlo all’obbedienza.”
Assioma di L’Hotte
Mara affonda il tacco dello stivale nel terreno che cede, si apre in una fossa, poi si richiude sotto alla suola con un risucchio quando tira indietro la gamba. Torna seduta sul cofano un momento prima che l’istruttore colmi la distanza tra l’auto e la scuderia. Ciuffi di capelli sporchi gli spiovono sulla faccia nervosa: anche lui è scontento, rinunciare all’allenamento di oggi per un acquazzone è una tortura.
Mara riconosce il nitrito impaziente di Ali, rinchiuso nel suo box, e sente addosso un’eccitazione malsana, qualcosa di pericoloso. Nell’eccitazione sono diluiti scenari di allenamento ideomotorio: la proiezione immaginata di ciò che accadrà in gara, tra soli venti giorni. Nella visualizzazione, contempla il percorso da un angolo impossibile: si guarda montare in sella ad Ali. Nella transizione dal passo al galoppo, si studia riunire l’andatura, filtrare l’aiuto propulsivo delle gambe con il bacino; la mano chiede una flessione, resiste, poi cede e Ali arrotonda la testa, i posteriori impegnati sotto il corpo; la falcata si accorcia. Accade proprio a quel punto, senza preavviso: sta ancora osservando il suo percorso netto ma lo guarda immersa in una vasca di vetro e l’acqua preme su di lei, la copre.
Riemerge dalla proiezione con le mani sudate. Nasconde il panico sottomettendo il corpo: è un esercizio muscolare, contenere per non esondare.
L’istruttore, ignaro, guarda il percorso. Un allievo seniores contro cui dovranno competere è quasi pronto a iniziare. L’istruttore mormora qualcosa, Mara non coglie del tutto ma lo sente furioso, e a ragione: non ci sono le giuste condizioni del terreno per affrontare il percorso in sicurezza.
“Il cretino rompe la bestia, vedrai”.
Stanno a guardare. Il cavaliere affronta il primo oxer con un’esitazione, e il cavallo ha un’uscita incerta. L’istruttore aspira l’aria tra i denti.
“Vedi?” dice. “Gli ha sfondato la mano ed è partito un tempo in anticipo, si è buttato sull’ostacolo come una foca. Hai visto?”.
Mara annuisce, soffermandosi con lo sguardo sulle due barre orizzontali dell’oxer, ancora gocciolanti.
“Il cretino non pensa con lungimiranza, si concentra su quel salto lì e gli monta il panico. Devi anticipare gli ostacoli successivi, ne salti uno e subito devi essere con la testa su quell’altro. Devi pensare a tutto il percorso, ti serve a scegliere se girare prima o dopo, allargarti o stringerti. Ricordati di guardare all’oxer profondo come a un falso oxer, in battuta metti un po’ la gamba e poi strizza in parabola”.
Mara sa che gli incidenti peggiori si giocano tutti sulle distanze; un cavallo che parte troppo grande, un colpo di reni al momento sbagliato, i posteriori che toccano l’ostacolo fisso. L’istruttore lo ripete sempre: la sicurezza viene prima di tutto, poi c’è il Cross. Puoi allacciare bene il cap, usare il para-schiena, le staffe, ma nel Cross si può morire; muoiono i cavalieri, muoiono i cavalli, a volte entrambi.
“In gara, stai attenta ai tempi corti. Per evitare che il salto ti arrivi in bocca, allargati nella spezzata, allontana Ali il più possibile. Pensa alla strada, non al salto”.
Mara non ha abbastanza paura del salto. Secondo l’istruttore, la paura fa fermare il cavallo: un cavallo fermo è un cavallo squalificato ma vivo, sano. “Non bisogna mai rompere la bestia”.
Riprende una pioggia sottile e insistente. Spendono un altro quarto d’ora a inzupparsi e a studiare la performance deludente del cavaliere che riesce a evitare grossi danni prima di arrendersi e riparare in scuderia. L’animale è provato, si impasta nel fango. Prima di risalire in macchina, l’istruttore sputa a terra con disprezzo.
Il rientro a casa non è quello di un giorno ordinario; Mara cerca di evitarlo da quando, subito dopo la colazione, hanno affrontato il discorso con suo padre. Lui le aveva dato appuntamento alle sette e trenta nello studio, solo loro due.
Per tutta la mattina, anche durante il compito di matematica, non ha fatto che pensare alle sue mani, al modo in cui le aveva chiuse mentre le parlava; le dita di suo padre incastrate le une nelle altre, piantate a metà tra loro, in una barriera invalicabile: oltre stava lui, uno dei suoi maglioni delle tonalità del verde, la contrazione involontaria della mascella in un morso stretto, feroce; per qualche ragione, c’era in lui anche la volta in cui si era convinto che il suo Pavor Nocturnus fosse una faccenda da risolvere con la cinghia – erano ricomparsi i segni, i lividi sulla schiena e anche il terrore improvviso dei suoi dieci anni, che non si placava.
Gli stivali di Mara lasciano impronte brune sul vialetto, li sfila prima di aprire la porta; oltre la aspetta l’odore di carne, la luce sempre accesa dell’ingresso, lasciata lì come un monito: la famiglia c’è, è presente, questa non è una casa vuota ma piena, proprio come tutte quelle del vicinato – la stessa luce che resta accesa anche quando a casa non c’è nessuno, a tenere lontano il pericolo.
I genitori la aspettano in sala da pranzo, sua madre con le mani occupate da un mestolo e un coltello, suo padre seduto a capotavola, a smistare la posta – è l’ultimo rappresentante della sua generazione a usare ancora l’apribuste di metallo. È tutto preciso, misurato, uguale, proprio come se non fosse accaduto nulla. Un unico cambiamento, curioso, nella scenografia: al tavolo manca una sedia, il quarto margine di legno rimane scoperto e da lì si intravedono le quinte della cena, le ginocchia larghe di suo padre, le gambe di sua madre foderate nella tuta di ciniglia, il modo in cui lei sovrappone una caviglia all’altra perché da qualche parte ha sentito che accavallare le cosce favorisce la ritenzione idrica. I saluti sono pacati, sua madre allunga una guancia per un bacio, suo padre impila le buste aperte una sull’altra, tutte nello stesso verso. Si dedicano alla cena proprio come se fosse un giorno qualunque, anche se questo è il primo giorno dopo che.
Lo schermo della televisione si incastra nel posto senza sedia all’altro capo del tavolo, quello che è sempre stato di suo fratello. Quando tornava a casa per le pause dalle lezioni, o passare un fine settimana in famiglia, le sue spalle e la sua testa impedivano la visione, ma non importava a nessuno. Suo fratello sovrapponeva alla voce dei quiz il suo tono alto, e raccontava di programmazione e controllo, di corsi, eventi collaterali a grandi fiere a Milano: di tutto questo lui sembrava proprio entusiasta.
In suo fratello c’è sempre stata una forma differente di energia, è stato più veloce in tutto: camminare, parlare, leggere, contare. A suo fratello piaceva una cosa che a Mara non riusciva mai, cioè intrattenere il prossimo; in lui sopravviveva lo slancio generoso per la conversazione, le domande interessate, l’ascolto attento – per questa ragione, era uno dei pochi con cui Mara si sentiva in grado di affrontare qualsiasi discorso. C’erano, in lui, anche le passioni che apriva e interrompeva, le sue idee sul voto, le sue ragazze tutte more. Ora che è sparito il silenzio è pesante, non sarà interrotto.
Il primo giorno dopo che diventa presto il secondo giorno dopo che e inizia vicino alla mezzanotte, quando Mara dà la buonanotte ai suoi, che si trattengono sul divano. C’è una grande luce azzurra che dal televisore si espande in tutta la sala da pranzo, fino al margine della porta d’ingresso: loro stanno composti e non sorridono, anche se in onda c’è una commedia che hanno già visto e trovato divertente.
Sopra, in camera, c’è ancora il materasso di suo fratello, senza piumone né lenzuola; è una carcassa, la disturba, così, dopo essersi messa a letto, Mara si gira sul fianco dove non può vederlo. C’è in lei una specie di presentimento, come se gli ultimi eventi fossero solo un’assurdità, ma le rimbalzano comunque nei pensieri le parole di suo padre di quella mattina, infilate una nell’altra a comporre un perfetto gioco di sostituzioni: ora che suo fratello “si è tirato indietro”, a lei spettano di diritto l’accesso in Bocconi, la laurea in Management d’impresa, la gestione dell’azienda agricola familiare. Precedente di un mese a oggi è la domenica in cui certi amici di suo fratello avevano chiamato dall’ospedale: “Federico ha avuto un collasso”. Si erano scoperti, in quel collasso, gli esami mai dati, la tesi di laurea che non esisteva e, in ultimo, la dipendenza.
Mara si concentra con intenzione sul pensiero di un oxer profondo: tra le due barriere il dislivello, il terreno al di là delle aste rosse e bianche. “Ricordati di guardare all’oxer profondo come a un falso oxer”, più corto, più basso – suo fratello non era neppure tornato a casa, suo padre l’aveva accompagnato dall’ospedale all’appartamento sfitto di un conoscente e da lì alla comunità terapeutica. Subito dopo il risveglio, le sue cose avevano iniziato a sparire e lì per lì Mara aveva creduto che si trattasse solo del pigiama e della biancheria che gli sarebbero serviti durante il ricovero. Poi, però, erano scomparse anche le scarpe, le camicie, i suoi libri, delle foto in salotto; a quelle sottrazioni lei non aveva mai assistito personalmente: le succedeva di tornare a casa da scuola o la sera dopo un allenamento e di percepire le assenze, i tasselli mancanti. Quella mattina aveva trovato il coraggio di fare a suo padre una domanda diretta in merito, dopo averlo ascoltato mentre le spiegava cosa sarebbe stato di lei per i successivi trent’anni – “Ma dov’è che sta adesso Federico, papà?”. “In un posto vicino a Pavia”. “Ma quando torna?”. “Ora è solo importante che si riprenda”. “Ma perché non c’è più la sua roba, qui a casa?”. “Ne ha bisogno in comunità, poi riportiamo tutto indietro”. “Quando andiamo a trovarlo?”. “Per la riabilitazione deve star solo”. Le risposte di suo padre seguivano una logica apparente e Mara si era sentita, come spesso le capitava, totalmente disarmata.
Al secondo tentativo di figurarsi l’oxer profondo, le torna in mente solo l’ultima volta che ha visto Federico, seduto vicino alla finestra, nella sua stanza, in ospedale: non era entrata a salutarlo perché non sapeva cosa dirgli, l’impreparazione l’aveva paralizzata. Cosa avrebbe dovuto fare? Abbracciarlo, dargli una pacca sulla spalla, loro che non si toccavano mai, nemmeno per sbaglio? Le è rimasto impresso il modo in cui sedeva, piegato in avanti, come se stesse cercando qualcosa con lo sguardo, oltre il vetro. Da quella finestra si vedeva solo un muro bianco.
A scuola i suoi amici sanno ma nessuno chiede. Anche l’istruttore sa ma non chiede; tutti sanno e non chiedono e la luce dell’ingresso, a casa, è ancora sempre accesa, così è impossibile capire se le stanze sono piene o vuote, se c’è qualcuno o nessuno, se suo fratello è esistito o no. Magari Federico è stato una lunghissima allucinazione collettiva: Mara si addormenta con questo dubbio anche il terzo e il quarto giorno dopo che.
La conquista l’idea di tentare la proiezione ideomotoria applicandola alla sua nuova vita incombente. Dall’angolo impossibile, si vede raccontare di programmazione e controllo, di corsi, eventi collaterali a grandi fiere a Milano – ma lo spettro risulta sempre troppo ampio, nell’inquadratura il volto di Federico si sovrappone al suo in un ricalco indistinguibile, ed è a quel punto che l’acqua torna a premere contro la bocca.
A distanza di una settimana, al maneggio, il terreno è asciutto ed è una bella giornata primaverile. Ali è in grande forma, Mara lo sente vivace ed energico tra le gambe, pronto nei tempi del galoppo – i cinque nella linea da ventuno e i quattro nella diciassette sono quasi perfetti. Buona parte della riuscita del salto è una questione di memoria del ritmo, che deve essere sempre uguale; per ottenere un buon ritmo bisogna sapere contare il percorso.
C’è una dimensione parallela, aperta sotto a un salto e chiusa appena oltre, dove Mara riesce a scomparire e in cui vorrebbe rimanere esiliata, confinata eternamente nella possibilità di precipitare o innalzarsi. Nel salto è espresso il valore di un binomio e in quel binomio, nell’unione, lei sa di potere dissolversi. Il binomio ha gambe ferrate e muscoli che tendono alla fuga, potrebbe crollarle addosso e schiacciarla, saltare all’improvviso e così in alto da scioglierle i polmoni in gola. Il binomio non ha nome, la sua identità è una volontà, un ordine. Nel binomio Mara ha passato più tempo che in qualsiasi altro luogo.
Lavorano sotto l’occhio vigile dell’istruttore fino a quando il manto grigio di Ali si fa lucido di sudore. Al rientro al paddock, incrociano il cavaliere incosciente, che li saluta con un cenno dalla groppa del suo Maremmano sportivo.
“Io mi stupisco sempre che riesca a metterlo rotondo” scherza l’istruttore, quando il ragazzo è lontano.
Liberano Ali dal peso della sella e delle redini, prima di lasciarlo libero nel recinto. Lui gode del suo quarto d’ora d’indipendenza scorrazzando senza scopo. Quando non lo cavalca, Mara non riesce a capirlo.
“In gara, già lo sai, non saranno tutti prevedibili come quel fesso” l’istruttore si appoggia indolente alla staccionata, la studia. “Dobbiamo insistere ancora sui tempi. Sono ottimi ma non costanti”.
“Ho anticipato l’ultimo salto” lo precede Mara.
“Hai pensato che la penultima falcata fosse l’ultima. Quando l’ostacolo è così vicino sparisce nascosto dall’incollatura ma quello non è il momento dello stacco: ad Ali serve ancora una mezza falcata con i posteriori, altrimenti vai in battuta anticipata. Ci lavoriamo dopodomani”.
Mara annuisce, guarda Ali che bruca, in compagnia di due Quarter che non reggono il confronto.
“Stai tranquilla. Ti piazzerai in alto. Ali è uno dei cavalli migliori che ho seguito e tu non sei da meno. Devi solo mantenere la calma” dice l’istruttore.
Gli risponde con un sorriso educato.
“Devo andare, mio padre mi aspetta in azienda”.
In macchina, quando mette in moto, riparte un disco di suo fratello e Mara lo soffoca prontamente sotto a una stazione radio; quasi senza accorgersene, guida ascoltando trenta minuti di approfondimento sulle fluttuazioni del Nasdaq. Alle fluttuazioni fanno da sfondo una sequenza di risaie e boschetti di querce, il cielo increspato dal passaggio delle garzaie.
In azienda, ad accoglierla, trova la segretaria e la solita sala d’aspetto spartana. Dopo aver ascoltato un paio di commenti sui modi e le maniere in cui sembra essere diventata più bella negli ultimi anni, Mara si accomoda nel divano rigido in similpelle, sfoglia distrattamente un catalogo aperto sul tavolino – lì dentro sono raccolte le copie plastificate degli articoli dedicati alla Zanghi & Famiglia; in uno c’è perfino una foto di suo padre che non sorride, a braccia conserte di fronte a una sarchiatrice in movimento; il titolo recita: “Contoterzisti di successo”. Mara viene sorpresa così, affacciata su quel ‘Zanghi & Famiglia’ che fa pensare a una grande e gioiosa comunità parentale, entità che in casa Zanghi non è mai esistita: sono sempre stati loro quattro, anche prima della morte dei nonni, niente zii, niente cugini, niente grossi matrimoni o capodanni affollati.
“Mara” la voce di suo padre è ferma, riempie la stanza anche se lui non la alza mai.
Al richiamo, Mara scatta in piedi: suo padre è in compagnia di due signori in giacca e cravatta.
“Vi presento mia figlia Mara. Un giorno verrete a trovare lei, qui”.
Fa il sorriso di circostanza, quello immobile e compiaciuto, e Mara sente scivolarle addosso un malessere profondo. Di quello stesso sorriso sono pieni i ricordi delle competizioni.
Immagina suo fratello insistere su ‘Zanghi & Famiglia’, proprio come ha fatto lei; rispondere con un cenno cortese agli sconosciuti, proprio come ha fatto lei; esitare all’idea di trovarsi oltre la porta di quell’ufficio, tra quindici o vent’anni, a ricevere in visita copie esatte di questi due estranei eleganti, proprio come sta facendo lei. E cosa avrà provato suo fratello, dopo? La stessa identica sensazione di stare annegando?
Mara resta impassibile; suo padre congeda gli sconosciuti, poi le chiede di accompagnarlo alla rimessa, solo loro due. Ci vanno a piedi, anche se sta scendendo il buio e l’aria inizia a pizzicare.
In rimessa non c’è nessuno, a parte i custodi, che salutano con un cenno e accendono i generatori: dentro, tutto passa dalla semioscurità a una luminescenza abbacinante. Sotto la luce bianca prendono forma gli scheletri del parco macchine, che hanno colori brillanti nascosti sotto a patine terrose.
Suo padre inizia a camminare tra i trattori, in silenzio; proseguono senza parlare fino ai denti affilati di un erpice rotante.
“I rappresentanti che hai conosciuto sono venuti a vendermi degli impianti satellitari” dice, fermandosi. “Lo chiamano precision farming. Puoi vedere tutto: se è terreno fertile o no e di che tipo, la dimensione, l’inclinatura. Si riesce a fare una mappatura precisa del terreno lavorato; pensa che potremmo anche iniziare con i livellamenti laser” ricomincia a camminare, dandole le spalle. “È il bello di questo mestiere, ci si rinnova rimanendo legati a una tradizione antichissima”.
“È molto interessante” sente rispondere Mara dalla sua stessa voce.
Suo padre si ferma ancora, stavolta davanti a una diserbatrice semovente di un arancione esagerato, che fa male a guardarlo anche sepolto dietro alla crosta di polvere.
“Questo settore non andrà mai a morire” dice. “Io lo so che avevi l’idea del Politecnico e di Informatica ma sono sicuro che riuscirai benissimo. Tu sei come me, hai un carattere solido. Te la senti?”
È a questo che serve la proiezione ideomotoria: ad anticipare la correzione dell’errore. Mara si immagina dire che certo, se la sente, perché no; che Informatica era solo un’opzione, che anche la Bocconi è un’alternativa molto appetibile, forse addirittura migliore. Mentre immagina di dire tutte queste cose, le dice davvero, e non pensa a come formulare le frasi: scorrono dalla bocca in un discorso equilibrato e composto.
Suo padre annuisce soddisfatto, la sonda un’ultima volta con gli occhi e Mara immagina di vedergli dentro il riflesso maschile di Federico, nel giorno in cui devono aver fatto lo stesso discorso.
Il giorno della gara il sole è intenso, i pantaloni candidi dei cavalieri si illuminano con i loro passi. Mara ha contato il percorso, si è trovata coinvolta in una diatriba tra due groom cingalesi, è evasa dai saluti con gli allievi delle categorie inferiori e ha riparato in un posto tranquillo, in attesa, il più lontano possibile dai recinti. L’istruttore la tiene d’occhio, anche se impegnato in una lunga conversazione con un domatore. Delle competizioni Mara odia tutto questo: le tribune, le figure, la gente che oggi li guarderà e domani vorrà imparare a saltare. A quest’ora, i suoi genitori avranno già presto posto, ed è impossibile rinunciare al pensiero di loro due in attesa.
Esegue gli esercizi di respirazione, isola l’emozione, la allontana, ritorna per l’ultima volta nella proiezione. Si concentra sull’oxer profondo: l’ostacolo che spaventa tutti. Nell’oxer profondo stanno le incognite dell’uscita, dello stacco e, prima ancora del salto, le variabili di tutto il percorso, del ritmo, dell’obbedienza che il cavallo pagherà o non pagherà, della capacità di un buon cavaliere di prevederlo, sentirlo. Nell’immagine mentale del percorso, Ali si eleva sull’oxer, atterra al di là.
All’apertura del campo di prova, i cavalieri si accalcano all’ingresso. Mara monta Ali cercando di non farsi travolgere dalla folla. Una volta dentro, buona parte della preparazione consiste nell’evitare che qualcuno finisca loro addosso; le urla chiamano gli ostacoli e, al di sopra di esse, iniziano poco dopo gli annunci dei cavalieri convocati nel campo di gara. Ali è riposato, reagisce bene alle direzioni, è di buon umore; i salti riescono.
Il turno arriva più tardi di quanto preventivato. All’accesso di Mara al campo di gara, il cavaliere precedente sta terminando il percorso e il commentatore recita a voce alta, metallica: “Combinazione. Verticale, oxer, verticale. Procede netto. E invece ecco, l’errore! Errore, è errore”. L’asta di un oxer rotola nel prato, il cavaliere si irrigidisce. È finita.
Mara guida Ali sul margine del campo, per un breve saluto ai giudici, poi è il momento del suono della campana. Dal passo al galoppo, Mara scivola piano nel binomio, non è più solo cavaliere ma neppure del tutto animale, una creatura a metà, più istintiva, meno umana. Il ritmo del galoppo parte esatto, il verticale riesce senza sbavature. Subito all’atterraggio sente Ali farsi forte ma è solo un istante, lo recupera in tempo per il primo oxer, che riesce netto. Di nuovo un verticale, pulito, e Mara conta tra i denti il percorso, i tempi, in questo momento che potrebbe durare per sempre e invece sta già per infrangersi. L’oxer profondo si affaccia davanti a loro. Ali reagisce bene, si lancia. Poi, a un tratto, cala il galoppo e lì, di fronte dall’oxer profondo, si immobilizza.
Sopraffatta, Mara tenta di forzare la mano, ma Ali non risponde, non si muove. Sta lì, è impossibile che stia accadendo, ma Ali sta lì, a guardare l’oxer profondo dal basso, da dove il terreno al di là non è neppure visibile. Mara guarda la tribuna collassarle addosso, ascolta il commento confondersi, perdere di senso, subisce il gelo che le fa tremare le gambe. Tenta di smuovere Ali, forza ancora la mano, ma non ottiene nulla. Alla sferzata del frustino l’animale risponde scartando di lato, girando su se stesso.
La tribuna ammutolisce ed è in quel silenzio che Mara smonta, a un passo dall’oxer profondo. L’ultimo sguardo ad Ali, nel campo di gara: i suoi occhi folli di panico incomprensibile, inquinati dalla disobbedienza che è costata loro ogni cosa.
Claudia Petrucci