Plenilunio a Parigi
Il muro di cinta di una villa, immersa nel bois de Neuilly a Parigi, è anche il confine tra realtà e fantasia, tra miseria e ricchezza, tra ideali e necessità: basta scavalcarlo, quel muro, e tutto si trasforma, il mondo esterno pian piano assomiglia a quello dentro di noi e i desideri e le speranze diventano realtà. Ma attenzione a scavalcarlo di nuovo, il muro, perché allora tutto quel bel mondo svanisce e la realtà scaccia i sogni e le fantasie. Rimane, sullo sfondo, ma niente affatto secondaria, la natura, ampiamente descritta con lessico del tutto originale e coinvolgente. È questo il racconto, che forse piacerebbe a Woody Allen (sicuramente all’Allen di The Purple Rose of Cairo), che apparve nel 1937, sul secondo numero del settimanale Omnibus, a firma di Kurt Erick Suckert, che ormai però si firmava Curzio Malaparte ed era una figura di intellettuale per certi versi simile a quella del fondatore e direttore della rivista, Leo Longanesi, come lui libero ed anarchico pensatore. Ma Malaparte fu, molto più di lui, sinceramente camaleontico e capace di scuotere il mondo culturale e politico di quel regime fascista al quale aveva sì aderito con entusiasmo in gioventù ma del quale ancora attendeva lo scoppio della carica rivoluzionaria. Da poco aveva pubblicato in Francia quella Tecnica del colpo di Stato, che come tutte le opere geniali e innovatrici, scatenò contro l’autore critiche feroci, odio e sospetti unanimi e trasversali che ebbero come effetto il suo confino all’isola di Lipari. Omnibus fu un esempio atipico e precoce di settimanale politico-letterario libero e aperto a culture e realtà di altri paesi, pur nascendo in un ambiente ormai fortemente controllato dal regime fascista, con il quale il giornale ben presto venne a rottura finendo per essere da questo chiuso definitivamente. Ad esso collaborarono tra gli altri Arrigo Benedetti, Alberto Savinio, Mario Pannunzio, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Aldo Palazzeschi. È in giornali come Omnibus o in quelli simili dell’epoca, tutti nati da un humus culturale fascista, e per questo presto volutamente dimenticati da intellettuali chierici e conformisti, come L’Italiano di Longanesi e Il Selvaggio di Maccari, che si nascondono ancora piccoli e grandi capolavori letterari, che pure non riescono a fiorire, almeno in così copiosa abbondanza nei giornali sbiaditi, sciocchi e conformisti di oggi, in apparenza più liberi, ma invece sottoposti ad un regime culturale ben più drammatico, rigido e severo. Per questo è bene ricominciare a sfogliare e leggere quei giornali trovando magari racconti dimenticati come questo.
Ettore Bianciardi
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Poteva anche essere uno di quei vagabondi, che le notti d’estate scavalcano i muri di cinta delle ville intorno al Bois de Neu illy, per rubar gli indumenti e gli oggetti, libri, sciarpe, guanti, fazzoletti, occhiali, dimenticati in giardino sulle sedie a sdraio. Camminava lungo il muro a testa bassa, lentamente, la luna gli batteva in mezzo alla fronte. Un povero diavolo vestito di stracci, un clochard magro, calvo, sdentato, dagli occhi lucidi in un viso scarno e livido, coperto da una nera maschera di pelo corto e duro incollata alla pelle. Si fermò, guardandosi intorno. Il viale era deserto, il chiarore lunare mutava i tronchi degli alberi in vaghe ombre lucenti, i rami e le foglie disegnavano nell’aria argentea una geometria di vene azzurre e verdi. Il vagabondo si alzò sulla punta dei piedi, s’aggrappò con le dita all’orlo del muro, si sollevò adagio facendo leva sulle braccia. Si mise a cavalcioni del muro, ansando. La luna appariva ora tonda e enorme, di un color zafferano, sparsa di macchie verdognole. Una leggera bruma gialla s’alzava laggiù dalle rive della Senna. L’odore dolciastro del fiume, un odore di fango, d’erba e di carbone, si mescolava nella brezza notturna al profumo inebriante dei tigli. Il cielo, d’un azzurro pallidissimo, sgombro di nubi e vuoto d’aria, si curvava profondo sugli alberi e sulle case. Il giardino ampio e tacito circondava una villa di maniera neoclassica con un peristilio di colonne doriche intonacate di un gesso bianco e lucido, disposte a semicerchio all’inglese. Davanti alla breve scalinata che saliva al peristilio si intravedevano confusamente, attraverso una ragnatela di raggi lunari e rami trasparenti, alcune sedie a sdraio intorno a un tavolo basso, ingombro di bottiglie, di bicchieri e di riviste. Il vagabondo spiava attentamente la facciata della villa, i viali, i boschetti di platani e di tigli grondanti di luna. A un tratto gli parve che una bottiglia si muovesse, e che un bicchiere, volando lentamente, si fermasse per qualche istante a mezz’aria, per poi tornare al volo a posarsi sul tavolo. Udì perfino il tintinnio del vetro. Ma certo si sbagliava, non era che un’allucinazione, un effetto della sua debolezza. Non toccava cibo da due giorni, l’ultima volta che aveva messo qualcosa sotto i denti era stato in un bistrot presso la Gare de l’Est, una salsiccia e un pezzo di pane. Si lasciò scivolare lungo il muro, balzò a terra, fece qualche passo tra i cespugli, si mise a sedere sull’erba al riparo di una siepe di mortella. Rimase così per qualche istante, quando lo sorprese un suono di voci. Qualcuno parlava, laggiù, davanti a lui, la voce veniva proprio da quelle sedie a sdraio. Eppure, per quanto aguzzasse gli occhi, non vedeva anima viva. Le finestre della villa erano spalancate sul niveo bagliore delle foglie e dell’erba del plenilunio, ma nessuna luce brillava all’interno. Tutti dormivano. Doveva esser tardi, le due, forse. La notte era tiepida, un rivo di vento scorreva nelle chiome degli alberi, il mormorio del fiume giungeva remoto e segreto. «No, no», esclamò a un tratto una voce di donna, «non ti perdonerò mai! Non t’avrei mai creduto degno di un simile delitto». «Ti prego soprattutto di non metterti a piangere», rispose una voce d’uomo dopo un istante di silenzio: «hai forse rimorso di quel che ho fatto? » «Rimorso? Sono innocente, lo sai. Sei tu, soltanto tu… ». «Sì, cara, sono io, soltanto io. Ma ora si tratta di far scomparire il cadavere. E tu devi aiutarmi». «No, mai, mai! Sei un assassino! Un assassino!» gridò con accento d’orrore la donna invisibile. Il vagabondo tratteneva il respiro, il cuore gli batteva con sorda violenza, uno strano insetto gli ronzava negli orecchi. Accanto al tavolo brillò all’improvviso una breve fiamma, che subito si spense, lasciando a mezz’aria un punto rosso, forse la brace di una sigaretta. «Mi accorgo che hai ancora paura di Annabell Lee», rispose la voce calma dell’uomo. Il vagabondo guardava fisso davanti a sé, sforzandosi di dar forma umana a quei due esseri misteriosi, sciolti nella trasparenza lunare. E a poco a poco gli parve di intravedere, distesa su una sedia a sdraio, un’incerta figura di donna, non sapeva se di vecchia o di bambina, e in piedi di fronte a lei, dall’altra parte del tavolo, un ragazzo di forse sedici anni, alto e magro, dal viso di cera e dai capelli bianchi leggermente ricciuti. Anche la donna aveva i capelli bianchi: ma il seno era stranamente giovine e rigoglioso. Il vagabondo si mise a strisciare verso la villa, cercando di non far rumore. In tutto il giardino non si udivano che il soffio fragoroso del suo cuore, e lo spaventoso scricchiolio dei fili d’erba schiacciati dalle sue ginocchia. Giunto a pochi passi dai due misteriosi personaggi, si fermò, nascondendosi dietro un cespuglio. «Non è paura la mia», diceva la donna con una dolce voce infantile. «Tutto il mio amore non è bastato a farti mutar proposito. Tu hai fatto della mia vita una cosa sublime, un ritorno a un’età immaginaria e felice, ma io non potrò mai perdonarti un simile delitto.
Era la nostra creatura. Non avevi il diritto di ucciderla». «Può darsi che tu abbia ragione, Matelda», rispondeva il ragazzo: aveva una voce acuta, con quegli improvvisi abbandoni, morbidi e distratti, che hanno i vecchi e fanciulli. «Può darsi che tu abbia ragione. Alla mia età non si ha ancora un’idea chiara dei rapporti di affetto che avvincono un assassino alla sua vittima e al suo stesso delitto. Sono innocente, lo sai. Voglio dire che ho il più profondo rispetto per la mia innocenza, pur sapendomi colpevole di un così atroce misfatto. Ma prima di giudicarmi bisogna che tu sappia perché ho ucciso Annabell Lee». «Io non pretendo di giudicarti», rispondeva Matelda, «ti ho già condannato. Sei un mostro. Un mostro». «Bisogna che tu sappia perché l’ho uccisa», seguitava il ragazzo. «Erano già molti anni che io…». Ma a questo punto s’interruppe, si voltò verso il cespuglio dietro il quale si nascondeva il vagabondo, e allargando le braccia esclamò con accento di lieta sorpresa: «Oh, caro Jean Louis!» Il vagabondo si alzò, battendo le palpebre, e s’avvicinò lentamente ai due sconosciuti. «Mio caro Jean Louis!» ripetè il ragazzo muovendogli incontro con la mano tesa. La luna gli batteva negli occhi traendone vivi bagliori verdi. Era un giovinetto di apparenza gracile, dal viso trasparente dove splendeva il riflesso di una bellezza sfiduciata e triste. «Non lo riconosci!» domandò il ragazzo a Matelda. «È il mio amico Jean Louis». E volgendosi al vagabondo: «Ti aspettavo», disse, «ero sicuro che saresti venuto. Ho bisogno di te». Jean Louis osservava con curiosa attenzione Matelda. Vista così da vicino, gli pareva assai diversa da come gli era apparsa, o da come si era immaginata, da lontano. Non poteva avere più di diciotto anni: era una fanciulla dalle forme splendide e magre, dal viso lungo e pallidissimo, dove gli occhi scintillavano di un vero fuoco. «Sono molto lieta», disse Matelda fissando Jean Louis con uno sguardo ingenuo, estremamente puro, «non mi aspettavo una così felice sorpresa. Anteor mi ha già parlato di voi, se è vero che siete quel famoso Jean Louis di cui nessuno osa parlare in privato». «Infatti», balbettò il vagabondo, «io mi chiamo realmente Jean Louis, detto Jean le Desossé. Ma chi vi ha detto?…». «Non conosco il segreto della vostra vita», continuò Matelda con un grazioso sorriso, «ma so che l’eleganza del vostro vestito, la perfezione delle vostre maniere, l’originalità del vostro pensiero, potranno esserci di grande aiuto in un momento così delicato. Anteor, parla tu». «Mio caro Jean Louis…», cominciò Anteor. Ma il vagabondo non prestava attenzione alle parole del ragazzo. Immobile di fronte a Matelda volgeva gli occhi stupiti ora sulla fanciulla ora su se stesso. Si accorgeva d’essere vestito elegantemente con una giacca di tweed marrone, di quel taglio che fa la gloria dei sarti inglesi di Saville Row e un paio di calzoni di flanella grigia, come portano tutti gli undergraduates di Oxford e di Cambridge. Aveva scarpe di pelle di mucca scamosciata, una bella camicia di un delicato azzurro, una classica cravatta turchina a puntini bianchi. Si passò una mano sul viso: e rimase stupito nel sentirselo liscio e dolce, rasato di fresco. Un lieve profumo di lavanda e di Pond’s Extract gli era rimasto nel palmo della mano. Si guardò intorno. Il giardino, i suoi strani ospiti, la villa dalle finestre spalancate, gli apparvero come una realtà interpretata magicamente, realizzata per magia. Si sentì venire meno, la testa gli girava: era forse l’effetto dei numerosi whisky che aveva bevuto al bar del Ritz e da Fouchet. Aveva ancora qualche soldo in tasca, pressappoco un migliaio di franchi e un biglietto di cinque sterline. Quella miseria nera lo avviliva, si sentiva mancare dalla fame e dal sonno. «Quando tu stesso saprai di che si tratta, seguitava Anteor, «vedrai che non ti chiedo nulla di straordinario. Ho ucciso Annabell Lee. Non so come disfarmi del cadavere. Oh, un cadavere modernissimo, grandeur nature, perfettamente educato in un collegio di Oxford. In realtà, non era un collegio di Oxford, ma una pensione di Brighton». «Mi hai sempre detto che Annabell Lee era stata educata a Oxford», l’interruppe Matelda. «Ti sbagli cara era proprio una boarding house di Brighton… il cadavere perfettamente educato di una delle migliori giocatrici di golf che abbiano mai sfiorato l’erba di St. Andrews e di Gleaneagles. Una ragazza di diciotto anni, magra e bionda, dal viso di una lucentezza orgogliosa e malinconica. Si chiamava Annabell Lee. Ma domani i giornali la chiameranno la femme coupé en morceaux du Bois de Neuilly. I nomi di donna hanno talvolta un curioso destino. La sparizione di un cadavere simile potrebbe riuscire veramente un capolavoro di buon gusto, di sensibilità e di intuizione. Per mia disgrazia, io non conosco le regole di questa ars perpulchra che attende ancora il suo Aristotele e il suo Reinhardt.
Forse non mi resta altro che tagliarlo a pezzi con un coltello da cucina, se qualcuno non m’offre l’aiuto della sua esperienza e del suo tatto. Un uomo di tatto: ecco ciò che occorre. Jean Louis, tu non può rifiutarmi… . «Non so», rispose esitando Jean Louis, «come potrei esserti utile…». «Che ne diresti», l’interruppe Anteor, «se mi provassi a nascondere il cadavere di Annabell Lee in una calza di seta, in un guanto, in una trousse? Le donne sanno giocare dei tiri così strani alla verosimiglianza, alla logica, e alle convenzioni sociali, che non mi sembra di chiedere nulla di straordinario a Matelda, pregandola di nasconder Annabell Lee in una calza di seta». «Ci sarebbe forse un mezzo molto più semplice», disse Jean Louis. «La Senna è vicina». «No», replicò Anteor. «L’idea di gettare Annabell Lee nel fiume mi ripugna. Tanto più che verrebbe a galla. Tu dimentichi, mio caro, che si tratta di un cadavere di celluloide». «Non sarebbe meglio gettarlo nel chiaro di luna?» domandò Matelda. «Credo che abbiate ragione», disse Jean Louis volgendosi a Matelda. «Il chiaro di luna, in questa stagione, è molto profondo. Nelle ore di alta marea giunge a sommergere perfino la punta della torre Eiffel.». «L’idea è buona», esclamò Anteor. «Andiamo, non perdiamo tempo». «Annabell Lee ci aspetta», disse Matelda appoggiandosi al braccio di Jean Louis. «Bisogna essere puntuali con i cadaveri». È tutti e tre salirono gli scalini, entrarono nella villa. Annabell Lee li aspettava distesa pigramente sul divano ricoperto di seta chiara. Era un cadavere di celluloide, perfettamente conservato. Nella penombra argentea della stanza splendevano sui mobili grandi vasi di porcellana colmi di fiori. Dalle finestre aperte si vedevano gli alberi del giardino dondolare nell’acquatico chiarore lunare i verdi rami trasparenti, simili a pesci in un acquario. I riflessi delle foglie guizzavano sulle pareti bianche. Jean Louis osservò con piacevole sorpresa che i rapporti fra gli oggetti e il cadavere di Annabell Lee erano regolati da un senso delle proporzioni e della prospettiva che non aveva nulla di anormale. Tutto ciò che si offriva al suo sguardo era di grandezza naturale, eppure egli avvertiva confusamente che in quella grandeur nature v’era qualche cosa di arbitrario: non avrebbe saputo dire se le dimensioni della stanza, dei mobili, degli oggetti e delle persone, fossero più piccole o più grandi del normale, ma sentiva che alla scena e ai personaggi mancavano un segreto equilibrio, un’intima armonia, ed ora gli sembrava di muoversi in un mondo di proporzioni ridotte, ora in un mondo di proporzioni esagerate. A un tratto si accorse (e si meravigliò di non essersene accorto subito, entrando) che il cadavere di Annabell Lee era interamente nudo, dalla fronte al calcagno. Una nudità rosea, accentuata intorno alle giunture delle braccia, dei polsi e delle gambe, intorno all’innesto del collo, del naso e degli orecchi, da un bellissimo tono più roseo, che sul seno, sul ventre e sulla fronte sfumava in tenui riflessi d’avorio. Sembrava un cadavere vuoto. E infatti quando Anteor, curvandosi su Annabell Lee, la sollevò passandole una mano sotto la schiena, non ebbe l’aria di compiere il minimo sforzo. Il contegno di Annabell Lee era perfetto. All’apparire dei tre complici aveva alzato il capo con un gesto di signorile pigrizia. Poi s’era portata la sigaretta alle labbra, e, traendone una lunga boccata di fumo, aveva guardato fisso Jean Louis con un sorriso invitante. Al gesto di Anteor il suo viso non rivelò alcuna sorpresa: e continuò a fumare anche quando il ragazzo, dopo averla tenuta sospesa in aria per mostrarla a Jean Louis, la lasciò ricadere sul divano. Il cadavere urtando il cuscino di seta, diede un suono morbido e rimbalzò leggermente. Si leggeva nel suo sguardo un’ironia triste, un sentimento di rinunzia e di abbandono che a poco a poco mutava colore, prendeva l’iridiscenza argentea di una speranza non ancora del tutto delusa. Uno sguardo orgoglioso e cadaverico. «Volete un whisky?» domandò Matelda a Jean Louis, porgendogli un bicchiere. «Anche tu?» disse poi volgendosi ad Annabell Lee. «Grazie, cara», rispose il cadavere allungando distrattamente la mano. Le dita rosee, toccando il cristallo ne trassero una nota precisa e breve, un suono senza vibrazioni, secco e improvviso. Jean Louis osservava attentamente Annabell Lee. Un fascino strano emanava da quel corpo di giovinetta educato alla grazia violenta dei giochi atletici. Il braccio destro appariva leggermente più sviluppato di quello sinistro, per la pratica assidua del golf e della scherma. Il gomito era bianco e liscio, i tendini del polso e della caviglia tesi e sottili, il bacino largo, le spalle diritte, il collo magro e lungo. Pensò che quel cadavere avrebbe ceduto soltanto alla forza. Inutile giocare di astuzia. «Mi sembra», disse a un tratto Anteor, «che stiamo perdendo un tempo prezioso. È già tardi. Bisogna decidersi. Un delitto si decompone assai più presto di un cadavere. Prima dell’alba, qualunque traccia del mio delitto deve scomparire». A questo punto Annabell Lee si sollevò sui gomiti, e fissando in viso Jean Louis: «Vi è un segreto nella mia vita», disse, «che voi dovete conoscere. Soltanto voi. I segreti dei cadaveri sono inviolabili. Avvicinatevi, vi prego. Debbo dirvi alcune parole all’orecchio». Jean Louis si avvicinò al divano e si curvò su Annabell Lee. Stretti l’una all’altro, Matelda e Anteor osservavano la scena con palese sospetto. A un tratto Jean Louis si sentì stringere il collo da due braccia muscolose e una bocca umida e calda premere sulle labbra. Fece per svincolarsi, ma Annabell Lee sembrava trarre da quel bacio una forza sovrumana. Una lotta mortale incominciò. Quasi soffocato da quell’abbraccio violento, Jean Louis aveva appoggiato un ginocchio sulla sponda del divano e, afferrato il cadavere per le spalle, tentava di allentare la stretta. La pelle di Annabell Lee era asciutta e liscia, tesa sopra una materia dura e resistente dove le dita affondavano con sonori schiocchi. All’improvviso un braccio del cadavere si staccò dal busto con un crepitio
strano, e rimbalzò sul pavimento. Ma la bocca della morta rimaneva incollata alle labbra dell’avversario con una tenacia invincibile. Anche l’altro braccio, a un tratto, si staccò dalla spalla. «Jean Louis!» gridò Matelda pallida di terrore. Le due mani di Jean Louis stringevano come una tenaglia la gola del cadavere. Benché la stretta fosse di ferro, il viso di Annabell Leee rimaneva impassibile, la fronte bianca pura, le guance lievemente rosee. A un certo punto, per vincere la resistenza disperata di quelle labbra, Jean Louis tentò l’ultimo sforzo: appoggiò il ginocchio sul ventre della morta, vi si lasciò andare con tutto il suo peso. Si udì uno scricchiolio orrendo, il ventre cedè, il ginocchio dell’uomo affondò in una materia dura e crepitante. Finché anche la testa si staccò dal busto, rotolò ridendo sul pavimento. Un silenzio profondo regnava nella stanza. Poi, a poco a poco, si udì singhiozzare Matelda abbandonata in una poltrona, il viso nascosto fra le mani. Jean Louis era rimasto in piedi davanti ai miseri resti di Annabell Lee, ansante e sudato, le labbra tumefatte. «Bisogna far presto», esclamò Anteor ritrovando per primo il suo sangue freddo. «Non abbiamo tempo da perdere». Strappò una tenda da una finestra, la stese sopra un tavolo, e avvolse pietosamente le braccia, la testa e il tronco di Annabell Lee in quel sudario improvvisato. Jean Louis si mise il fagotto sulle spalle e si avviò verso la porta. «Non dimenticare», disse Anteor, «che stasera alle sei ti aspetto al bar del Ritz». «Ci sarò anch’io», mormorò Matelda avvicinandosi a Jean Louis e fissandogli in viso uno sguardo umile. «Non dovete mancare». «Va bene», disse Jean Louis, «ci vedremo stasera al Ritz». E uscì nel giardino col cadavere sulle spalle. Dall’alto del muro buttò il fagotto sul marciapiede del viale, e il fagotto, nell’urto, si aprì, la testa di Annabell Lee rotolò sull’asfalto con un tintinnio morbido. Jean Louis si lasciò scivolare dal muro, si mise a sedere per terra, le spalle appoggiate al tronco del tiglio. La luna già bassa all’orizzonte splendeva tristemente fra gli alberi. Sembrava una macchia bianca, oleosa: il cielo, d’un azzurro verdognolo, n’era tutto intenerito, un cielo poroso come la pelle vista attraverso una lente. Giungeva dalla Senna un rauco ansimare di rimorchiatori, le chiatte risalivano e scendevano la corrente fra rive grigie, dove già fumava la prima nebbia mattutina. Gli alberi si svegliavano, scuotevan le chiome umide e pesanti, cominciavano a trillare, a gorgheggiare, le foglie lucide di guazza si specchiavano l’una nell’altra, con un fremito lieve, agitandosi lietamente sui rami macchiati di verde muschio. I fanali languivano nell’aria già fragile, già meravigliata, la luna lambiva ormai i tetti delle ville, s’era fermata un istante fra due comignoli a guardare per l’ultima volta la città, il fiume, i giardini, i boschi, che il timido mattino schiariva e rivelava a poco a poco. Jean Louis e si sentiva mortalmente stanco, la testa gli pesava, uno strano insetto gli ronzava negli orecchi. Era certo la fame, non mangiava da due giorni, l’ultima volta che aveva messo qualche cosa sotto i denti era stato in un bistrot presso la Gare de l’Est, una salsiccia e un pezzo di pane. Ah già, il bar del Ritz, Fouquet. Era così stanco, che non riusciva a rammentarsi quando era stato al Ritz e da Fouquet. Eppure gli sembrava… Si guardò la giacca, si lisciò i calzoni. La luna gli batteva di traverso nel petto, la giacca di tweed marrone riluceva stranamente nell’aria già intorbidita dalla luce sporca del mattino. Annabell Lee, Matelda, Anteor. Si asciugò la bocca col dorso della mano, le labbra gli dolevano, gonfie e screpolate. Annabell Lee. «Avvicinatevi, vi prego. Ho un segreto, da confidarvi. I segreti dei cadaveri sono inviolabili». La testa di Annabell Lee era rotolata proprio accanto a lui. Un sorriso ironico e triste appariva dipinto in quel viso roseo, che sulla fronte e sulle guance sfumava in teneri riflessi d’avorio. Gli occhi spalancati lo fissavano. Uno sguardo chiaro e dolce. Quasi senza accorgersene, Jean Louis allungò la mano, e sentì sotto le dita qualcosa di freddo e di molle: un brivido gli corse lungo la schiena. Fece per alzarsi, fuggire, ma nel voltarsi vide sporgere dal fagotto il busto monco di Annabell Lee. Si lasciò ricadere, chiuse gli occhi, si passò la mano sul viso. Un che di ruvido, d’ispido, gli punse le dita. La luna era ormai scomparsa, il cielo orientale si tingeva del roseo fuoco dell’alba. «Che cosa fai qui?» Era una voce rauca e bonaria. Jean Louis alzò gli occhi e si vide davanti un agente, con la mantella di panno turchino avvolta intorno alle spalle. «Buongiorno», disse Jean Louis. «Che cosa c’è in quel fagotto?» «Non sono stato io, ve lo giuro», rispose Jean Louis. «Era già morta, mi hanno pregato di gettarla nel fiume». «Con poca fatica la puoi accomodare. È una gran bella figliola», disse l’agente con un riso allegro, raccogliendo la testa di Annabell Lee. «Vi giuro che non sono stato io», balbettò Jean Louis. «Volevano disfarsi del cadavere, li ho soltanto aiutati a farlo a pezzi. E’ la verità, ve lo giuro». «Sempre ubriaco, scommetto!» Esclamò l’agente. «Dove l’hai rubata?». «Vi giuro, è la verità». «Accidenti che sbornia! Faresti meglio ad andartene», disse l’agente con voce bonaria, aiutando Jean Louis a rialzarsi: «se ti ritrovo qui, ti porto in guardina. Capito?». E gli diede una leggera spinta, borbottando, per avviarlo. Jean Louis barcollò. Fece per stringersi la cinghia dei calzoni, e abbassando il capo si accorse che il suo bel vestito era ridotto un mucchio di cenci, il gomito usciva da un largo strappo nella manica. «E la tua bambola? La lasci qui?» gli domandò l’agente porgendogli le braccia, il busto e la testa di Annabell Lee. «Grazie», disse il vagabondo. E si avviò verso il fiume stringendosi al petto la bambola rotta.
Curzio Malaparte