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Io e Bafometto. Intervista a Gregorio H. Meier

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Io e Bafometto si apre con un proemio che capovolge il verso del storia: è il riflesso che guarda, l’immagine che fissa l’occhio del corpo dal fiume in cui è scolpito un fanciullo. L’elemento liquido apre il prosimetro che si chiude con il corpo di una donna-madre. Si attraversa il mare e si termina il viaggio uscendo a rivedere il cielo. La luna. Già il proemio presenta il tono paradossale della storia che andremo a leggere, fiume da cui fuoriescono rivoli alternativi, gustose immaginazioni intrusive nel corpo-mente della linea narrativo-poetica principale, e dalle pause ritmiche dei versi. Ritmo, molto ritmo: elementi chimico-semantici che tornano, disseminati qui e lì, a costruire un universo onirico e inconscio che si realizza nella mappa della scrittura desiderante e alchemica. Qui si trasforma la materia oscura e paranoica del soggetto in brillante vena aurifera e, pure nella brevità della storia, policroma nella collocazione dello sguardo. Dal bar alla luna, dalle grotte alla stanza. La cosmogonia di Io e Bafometto ci trascina avanti e indietro nel tempo, e se logica c’è, è quella che sospende le normali regole fisiche del prosimetro tradizionale. All’origine di questo mondo parallelo c’è l’uomo e una bocca immensa. La sperimentazione di questa scrittura è anche nella capacità di amalgamare piani differenti di forme espressive. Il filo dell’immaginazione tiene uniti i vari tagli della narrazione: quello filosofico, quello poetico, quello pseudo-saggistico. C’è sempre un vuoto propulsore che spinge la storia verso sfumature rizomatiche e ne fanno un luogo autorale non canonico. Singolare. La postura satirica non è facile da mantenere assieme alla leggerezza con cui veniamo accompagnati alla conoscenza, alla saggezza dei filosofi greci, dei tedeschi, dei poeti latini. La breve vita di Eraclito l’oscuro e quella di Ramino. La follia come esito estremo della conoscenza che è pure coscienza. Dell’onniscienza. E in questa volontà creatrice e poietica non mancano le ampie parentesi di morte e di orrore. Non solo piani e discorsi differenti, pure colori contrastanti, atmosfere cupe incastrate in tragitti fantasiosi, parallele a intrecci surreali. La ‘cosa’ di Meier è un lungo fantastico viaggio intorno a quella verità del desiderio a cui finalmente il viaggio della scrittura tutta dovrebbe condurci, ma non sempre con gli esiti felici di Io e Bafometto.

Gianluca Garrapa

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«Quindi l’ospite prese ad aprire il fazzoletto un lembo alla volta, lentamente, e – abracadabra! – il fazzoletto si trasformò in una coperta di lana decorata a motivi geometrici, un trionfo di quadrati, triangoli e cerchi colorati che a vederla metteva di buonumore: il verde, l’arancione, l’azzurro, il lillà.» Il tuo prosimetro, in effetti, è proprio una sorta di magico patchwork fanta-filosofico e esoterico. Passi da Edipo a Schopenhauer, da Arlecchino a Eraclito, dai guizzi comici e grotteschi all’orrore e alla magia nera, dalla paranoia alla goliardia: come hai costruito e intessuto i vari ambienti emotivi e i vari aspetti-riferimenti della conoscenza filosofica e letteraria?

Sono contento di cominciare questa intervista parlando dellʼimmagine della coperta di lana. Di fatto fino a 4-5 anni fa avrei voluto intitolare il mio lavoro La coperta di Bafometto, a dire che il libro nel suo insieme – con tutto il suo carnevale di sperimentazioni prosastiche e poetiche – era appunto sia una sorta di tappeto magico (mal funzionante) col quale poter volare sulla luna insieme al diavolo in cerca di vaghi saperi occulti – come appunto nel racconto “Io e Bafometto” –, sia una sorta di plaid da pic-nic per incontri amorosi che l’incantesimo di una strega (in concerto con un alchimista dalle sembianze asinine) trasformerà nel veicolo di una rovinosa caduta nella follia – come nel racconto “Il Grande Elisir”. La stessa coperta è poi centrale nel racconto che fa da asse portante al libro, “Memoriale di un Arlecchino”, in cui però, coerentemente col tono drammatico del testo, il “patch-work fanta-filosofico” viene rovesciato in una monotona e silenziosa notte di luna piena che la pietà (e la vergogna) di una madre stenderà sulle colpe indicibili del figlio. L’immagine della coperta di lana in fondo non è che una sorta di velo di Maya scintillante di rappresentazioni sotto cui ribolle un mistero d’orrore o, più semplicemente, un trauma rimosso. Tornando alla tua domanda, il mio interesse di scrittore negli anni è stato quello di fare sperimentazioni su più generi, soprattutto satiriche, e la difficoltà più grande per me è consistita nella messa a punto di una struttura che desse coerenza, compattezza e credibilità a un libro che, data lʼeterogeneità di stili, rischiava dʼessere un pasticcio e nulla più. Mano a mano che raccoglievo i miei lavori mi rendevo conto che si trattava di visioni che gravitavano in maniera ossessiva intorno a un punto cieco, appunto il “mistero dʼorrore” cui ho appena accennato. Lʼunico modo per legare insieme le tante sperimentazioni era mantenere nascosto questo nucleo centrale e attraverso vari espedienti dare la suggestione di un moto vorticoso di visioni attorno a questa sorta di buco nero, così da andare a rappresentare il dramma di un io scisso – per non dire smembrato in mille pezzi – condannato a unʼesistenza spettrale perché incapace di accogliere in sé la propria ombra orrorifica o trauma.

«Aveva ripetuto per filo e per segno la trama del mio desiderio d’onniscienza, il che parve appunto divertirlo.» Desiderio e conoscenza: scorgo un ritmo, nel tuo libro, oltre a quello cadenzato dalla prosa cui si alternano i versi, un battito tra immaginazione e dato reale, tra legge e desiderio: ma quali dei due è stato più decisivo per intraprendere questo viaggio che abbiamo letto?

In generale non credo sia possibile determinare un confine e una gerarchia tra realtà e fantasia. Il libro è segnato nel suo svolgersi da un conflitto e una tensione continui tra opposti, una dinamica esplicitata fin dal titolo “Io e Bafometto” che accenna ai temi del doppio e della scissione che poi verranno sviluppati di volta in volta attraverso una proliferazione e frattalizzazione di coppie di opposti quali corpo e ombra, individuo e società, cultura e natura, preda e predatore, ragione e follia, infanzia e maturità, volto e maschera e così via. In questo piano di conflittualità irrisolvibili quella tra desiderio e conoscenza è senza dubbio tra le più rilevanti e su cui ho più insistito perché adatta a mettere in scena parabole comiche e satiriche. Spesso i miei sono personaggi incalzati da un prepotente desiderio di riscatto sociale dovuto al loro essere marginali, nientʼaltro che dei provincialotti incapaci di accettare gli aspetti miserevoli e umbratili dellʼesistenza. E questa sproporzione tra i loro desideri di rivalsa – sogni di successo, gloria, ricchezza, onniscienza, onnipotenza, trascendenza ecc. – e il ritrovarsi al termine dei loro percorsi di conoscenza davanti a verità basse e terrestri – miseria, marginalità, fame, fatica, insignificanza, anonimia, fallimento, malattia, vecchiaia, morte ecc. – mi ha dato appunto la possibilità in più occasioni di sviluppare in maniera satirica alcuni aspetti della condizione umana, in cui realtà e fantasia si scontrano e si implicano vicendevolmente senza soluzione di continuità.

«Già allora sentii che in me palpitava una segreta voglia di assistere allo scatenarsi dell’orrore, e di esserne ov­viamente io e soltanto io il centro e motore primo.» Questo orrore appare anche, in forma di dialogo teatrale che dà la misura della stratificazione della tua scrittura, nella sezione dedicata a Edipo a Colono. In questo senso i personaggi, per quanto a volte del tutto irrealistici, o inesistenti, assurgono a quella completezza che ne fa soggetti a tutto tondo, non semplici macchiette, non scimmiottamenti pseudocolti. Come hai lavorato per rendere credibili e singolari personaggi il cui nome ingombrante rischiava di farli scadere a mere citazioni?

Dietro ogni mio testo cʼè stato un lavoro speculativo e di scrittura molto approfondito. “Edipo a Colono”, ad esempio, per quanto si tratti di una forma breve vicina al genere della menippea – dunque un genere basso –, mi ha accompagnato per sette anni, ed è stato altresì il primo racconto su cui ci siamo confrontati io e il mio editor. Oltre al soggetto assai difficile da maneggiare sotto vari aspetti – in primis il suo essere un personaggio mitico usato e abusato –, vi erano difficoltà strettamente tecniche legate al tenere in equilibrio sia gli assi poetico e prosastico, sia i toni a un tempo tragici e ironici. Davanti a soggetti artistici più o meno credibili a mio modo di vedere da parte dellʼautore cʼè sempre una buona consapevolezza delle difficoltà interne alla struttura del testo nonché delle possibilità e dei mezzi di cui si dispone per affrontare e risolvere queste difficoltà. Per farla breve, direi molto banalmente che dietro la scrittura di un libro cʼè tanto lavoro. Tanto e tanto lavoro. Mi riesce difficile aggiungere altro.

«Il padre morto d’infarto in un giorno qualsiasi, dover convivere con una madre uggiosa e sempre in lutto, a quarant’anni suonati…» se c’è la conoscenza a spingere l’azione, la sete della conoscenza che porta alla follia, alla psicosi, pare che in sottofondo ci sia anche e soprattutto la Cosa oscura materna. La figura della madre è emblematica, e quasi psicoanalitica, e pare trasformarsi nella figura finale, liberatrice, della sacerdotessa: l’incontro con Bafometto è anche una rielaborazione surreale del desiderio archetipo della Grande Madre?

Come prefigurato nel proemio “Puer aeternus”, la voce narrante è da attribuirsi a un eterno fanciullo intrappolato nel grembo della madre; per cui, sì, la figura della madre è senzʼaltro centrale in Io e Bafometto. Eppure – almeno secondo la mia interpretazione – il motore del libro non è quella che tu chiami “la Cosa oscura materna”, che nel caso della voce narrante non è poi così oscura, dato che di volta in volta si trova rappresentata quando in una vicina di casa, quando in una divinità, quando in unʼex-fidanzata, quando in una nonna, quando in un cadavere, quando in una strega, quando in una serpe, quando in una civetta impagliata. Io trovo che il vero motore interno al libro consista nella mancanza del padre cui accenno nel racconto di apertura, il suo essere sprofondato in un sonno senza sogni e senza rimedio – un “buio corposo che sapeva forte di vino e di tabacco” –, mancanza che a sua volta allude a unʼassenza di fondamento ontologico che rende vano da parte del protagonista ogni tentativo di realizzare la propria identità – ovvero la segreta ossessione che incalza la voce narrante di capitolo in capitolo, la risposta alla domanda: “Qual è la mia faccia?”, come esplicitato nel racconto “Io e Bafometto” –, da cui lʼimpossibilità per il protagonista di concretarsi nel mondo, braccato comʼè da un terrifico baratro divoratore. Lʼincontro con Bafometto credo rappresenti quindi un tentativo disperato da parte dellʼio del titolo di darsi un fondamento da se stesso che coincida coi suoi infantili sogni di onnipotenza. Un tentativo goffo e impacciato destinato per ovvie ragioni al fallimento. Per quelle che erano le mie intenzioni, la figura finale della sacerdotessa vorrebbe rappresentare una liberazione posticcia perché al solito soltanto fantasticata, il momento di massima divaricazione tra realtà e desiderio (da notare tra l’altro quanto terribile sia lʼombra di questa fantasia di liberazione, che appare di fatto come uno stupro di gruppo e un incesto inconsapevoli), dunque una non-liberazione, nientʼaltro che uno dei punti di un circolo di ripetizione nevrotica in cui consiste lʼavventura a vuoto della voce narrante.

Perché proprio un prosimetro? E poesia e prosa, che valore conoscitivo e ritmico credi assumano nel corso del tuo racconto?

Inizialmente – ormai 12 anni fa – mi ero appassionato al prosimetro per emulare autori satirici quali Petronio e Luciano. Poi il mio modo di lavorare col tempo è diventato via via più maturo, nel senso che utilizzavo le proprietà polimorfiche del prosimetro là dove lo reputavo necessario. Credo che la scrittura consista nellʼapprossimare il più possibile i testi alle visioni che intendiamo rappresentare, uno scopo che si ottiene anche scegliendo le forme più appropriate al raggiungimento dellʼobbiettivo. Di fatto lʼasse prosimetrico, per quanto eccentrico, rappresenta soltanto una parte del mio libro, accanto alle parti poetiche e prosastiche in senso stretto. Anche se ovviamente, preso nel suo insieme, dato il concatenarsi lungo tutto il testo di versi e prose, Io e Bafometto non può che essere definito un prosimetro. Un risultato dovuto più che altro a contingenze espressive e strutturali.

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