Prove tecniche di femminismo. Un parolone spesso associato a una retorica stucchevole e noiosa, mal digerita dai signori maschi. E invece questo è un femminismo che non ha un briciolo di odio nei confronti degli uomini, ma è piuttosto una filosofia di ribellione nei confronti della sua autorità. Una visione del mondo, dei rapporti umani che diventa soprattutto “un patto per la giustizia, una lotta per l’emancipazione delle donne e per tutti gli oppressi e gli emarginati del sistema”.
È questo il femminismo di Isabel Allende, scrittrice di fama mondiale che a 78 anni con Donne dell’anima mia, il suo ultimo libro edito da Feltrinelli, si racconta partendo dalle origini. Femminista, come dice lei, dai tempi dell’asilo, un’infanzia infelice trascorsa in Cile, colorata di oscurità e paura. L’abbandono di un padre scomparso nel nulla. La sofferenza nell’osservare, a partire dalle proprie mura domestiche, l’insopportabile condizione di subalternità di tutte quelle donne colpevoli di aver sfidato le convenzioni sociali.
Così ben presto le difficoltà di Panchita, madre nubile di tre figli, modello per Isabel di donna fiera e coraggiosa, contribuisce in maniera radicale a forgiare quel carattere ostinato e ribelle condito da un perenne atteggiamento di sfida. Una personalità controcorrente, quella della madre, che aveva annullato il suo matrimonio (in Cile il divorzio è stato legalizzato solo nel 2004) e senza denaro né libertà, era vittima delle malelingue perché separata dal marito, bella e civettuola. Isabel cresce indipendente e diventa presto un’adolescente con l’irrefrenabile voglia di ribellarsi a un odiosissimo “machismo di pietra”. Sempre accanto nel suo viaggio ideale la madre e l’amatissima figlia Paula, morta a 29 anni per una malattia rara. Spiriti che circondano la sua stanza ancora immersa nel buio e nel silenzio e che la scrittrice saluta ogni mattina.
A segnare in modo tangibile la sua graduale consapevolezza verso la dura battaglia all’emancipazione è il suo primo lavoro come collaboratrice di una rivista femminista. Così le giovani colleghe giornaliste le insegnano a riversare la rabbia che “priva di un obiettivo è inutile e perfino dannosa” in una scrittura intensa e appassionata, fiera e battagliera “con il coltello tra i denti”, che affronta temi come il sesso, la verginità, la contraccezione, l’aborto, la violenza domestica, le leggi discriminatorie, la prostituzione, la gelosia. Dalle colonne incandescenti di quella rivista che, ironia della sorte, si chiamava “Paula” proprio come la figlia, Isabel era riuscita a trasformare la tremenda ansia che la tormentava fin da bambina in qualcosa di concreto. Era la fine degli Anni ’60 ma il divorzio in Cile arriverà solo nel 2004 e le manifestazioni femministe nel recentissimo 2019, grazie al movimento #MeToo.
Un acceso e vibrante racconto di vita, quello della Allende, che passa anche attraverso il rapporto con un nonno severo e attento, nipoti che si dilettano in “relazioni poliamorose” come se fosse qualcosa di nuovo ma in realtà vecchio come il mondo, e riflessioni e pensieri sparsi su tre matrimoni che l’hanno vista protagonista. Il primo, a vent’anni con Miguel, timido studente di ingegneria; il secondo, con l’avvocato William Gordon, 28 anni insieme, e infine a 74 anni il magico incontro con Roger, che dopo 5 mesi di e-mail inviate ogni sera e ogni mattina, per lei si trasferisce da New York in California. Non manca una digressione sull’amore on line e sulla cosiddetta 2terza età”, che la Allende, classe 1942, affronta senza troppi drammi con estremo realismo. Terza età che non vuol dire appannarsi, bensì riuscire a vivere perfino un amore con serenità e consapevolezza.
Isabelle Allende in questo libro passa in rassegna le donne più importanti della sua vita. E in questo, largo spazio è dedicato a Carmen Barcells, famosa agente letteraria di Barcellona che seppe riconoscere per prima il suo talento e la introdusse con dedizione e pazienza nel difficile e complesso universo maschilista degli scrittori. “Il Cile è il Paese dove mi è stato più difficile essere accettata dalla critica, anche se ho sempre potuto contare sull’affetto dei lettori”, scrive la Allende. La parte finale del libro è dedicata al racconto della ancora difficile condizione femminile nel mondo, soprattutto in Africa, America latina, nel vicino Oriente. E perfino negli Stati Uniti, dove in media “ogni sei minuti una donna viene violentata”.
Un impegno gravoso quello di smantellare una diffusa cultura patriarcale che ha relegato per secoli la donna in un angolo. E finalmente arriva il momento di parlare della sua fondazione, nata dopo la pubblicazione del romanzo “Paula” (romanzo del 1994). L’obiettivo, come spiega la stessa Allende, è quello di “investire sul potere di donne e bambine ad alto rischio, perché questa era stata anche la missione di Paula nel corso della sua breve vita”. Quindi l’attenzione si concentra su progetti che riguardano la sanità, l’educazione, l’indipendenza economica e la protezione contro la violenza e lo sfruttamento. A testimonianza del fatto che quelle di Isabel Allende non sono soltanto belle parole. Perché un segno tangibile di arretratezza è vivere in una società in cui le donne sono sottomesse. E ricordatevi che, piccolo dettaglio che conta, le femministe non sono “streghe isteriche e pelose”.
Elena Orlando