Un sentimento di intima appartenenza pervade le pagine di La natura nel pensiero femminile del Novecento, un volume di recente apparizione a cura di Isabella Adinolfi e Lucetta Scaraffia. Se, come lascia trasparire il titolo, ad essere indagato nel volume edito per i tipi de Il Melangolo (Genova) è il rapporto tra un’immagine maiuscola di Natura e la donna, la femminilità e il pensiero femminile, ad affascinare fin dalle prime pagine il lettore è la sottolineatura del carattere interiore e riservato di una tale relazione. Forti di una larghezza e di una capacità di sguardo del tutto inarrivabili, molte sono le intellettuali presentate nel volume a regalarci con un moto di riconoscimento e di familiarità la propria immagine della natura, la propria consistenza naturale: da una natura immaginifica e racchiusa nel ricordo d’infanzia di Cristina Campo all’amore per la bellezza e l’ordine necessario del mondo di Simone Weil, dallo sguardo tipicamente fanciullesco di Anna Maria Ortese capace di cogliere la materia celeste delle cose, alla visione ecofemminista che Mary Webb sa trarre dal paesaggio rurale dello Shropshire, passando per i cosiddetti compagni animali di Elsa Morante e dall’inno alla natura di Colette e, ancora, per l’incombere della vicenda storica novecentesca sul regno naturale con Etty Hillesum e Rosa Luxemburg, fino ad arrivare alle brughiere inglesi di Sylvia Plath e alla poesia-preghiera di Zinaida N. Gippius. Sono queste le dieci intellettuali che, grazie all’opera delle altrettante studiose italiane i cui saggi compongono il volume, accompagnano il lettore ad una più approfondita visione del regno naturale, una visione capace da un lato di un’intima coappartenenza e dall’altro di una lucidità e di una profondità di prospettiva tali da esprimere una spiccata ricerca di assoluto e insieme una cura per l’infinitamente piccolo, per la miriade di animali, fiori, arbusti che popolano il regno naturale.
L’affermazione e la capacità di possesso – un possesso del tutto virtuoso e oculato, capace al contempo di manifestare una attenta cura e un sentimento di tutela e preservazione – del regno naturale viene ben espresso da una frase lampo della scrittrice Colette, di cui viene citato un passo che pare quasi un manifesto di intenti:
Questo vello erboso è mio, e mio anche il sostrato grasso della terra, la dimora profonda del verme […] mia, se voglio, l’acqua prigioniera e nera, sepolta cento piedi sotto, di cui berrò, se voglio, la prima sorsata che sa di arenaria e di ruggine (p. 55).
In una visione che mira a restaurare la prosperità e la bellezza del luogo (p. 55), grazie ad una capacità di possedere che si spinga al di là della mera bramosia di possesso, queste intellettuali si sono sapute aprire ad un rapporto di totale e immediata coappartenenza con il regno naturale. Ed è precisamente un tale rapporto di comproprietà e di reciproca appartenenza a mediare l’incontro tra la femminilità e la natura. Da un lato una natura direttamente posseduta, capace di esemplificarsi contemporaneamente nella relazione – quotidiana, mensile – con la propria corporeità femminile e insieme nella volontà di far prosperare il proprio, personale lembo di terra, il giardino che tanto si cura. Una terra che appartiene e cui si appartiene, che costa fatica ma che tutto genera, come viene ricordato nell’esergo d’apertura del saggio su Mary Webb:
So di essere fatta di questa terra, come le mani di mia madre sono state fatte di questa terra, così come i suoi sogni venivano da questa terra… tutto quello che so mi parla attraverso questa terra (p. 77).
Sapersi radicate ed appartenenti ha permesso a queste intellettuali di vivere con assoluta intimità e in un moto di riconoscimento il rapporto con la natura stessa. Essere fatte di terra, saperla coltivare, vederla fiorire e rinascere ad ogni primavera, comprenderne la forza ciclica e rinnovatrice e insieme l’intrinseca fragilità ha concesso loro di farsi cantrici previlegiate del regno naturale.
Dall’altro lato, a sfuggire a questo moto di reciproca appartenenza, è la natura assoluta, da osservare e temere, dimora di mistero e meraviglia, capace di molteplici significati così come ricorda Simone Weil. Si incontra allora una natura eterea, resa immaginifica e fumosa dal ricordo che di essa conserviamo, dall’indagine della memoria, da una favola o un mito un tempo raccontati – la cosiddetta luce d’infanzia e di fiaba che avvolge la natura di Cristina Campo. Accanto a una natura praticamente conosciuta, al giardino coltivato, al sapersi artefice e sovrana (p. 54) della propria terra, si situa una visione che fa della natura una forza assoluta e imprendibile, il modello stesso dell’obbedienza al divino (come recita il titolo di uno dei contributi del volume) verso cui ci si apre alla mistica, alla celebrazione, al regno dell’inafferrabile.
È dunque in questa duplicità di appartenenze – tra una natura che si possiede e su cui si ha opportunità di agire direttamente e la natura di cui si è figli e figlie – che si concretizza e si manifesta il rapporto del tutto personale che le intellettuali studiate nel volume sembrano avere nei confronti del regno naturale. Una natura come ambito privilegiato del privato e dell’espressività, capace di ospitare lo spirito poetico, filosofico e letterario di queste protagoniste del secolo scorso. È infatti la capacità di espressione tipica della parola scritta ad aver mediato e al tempo stesso condotto il rapporto di queste intellettuali con il circondario naturale. In questo senso pare fruttuoso riprendere la concezione di espressività che attraversa il saggio dedicato ad Anna Maria Ortese, che annuncia una forma privilegiata di ex-pressione come moto di far scaturire dall’interiorità qualcosa che preme, che spinge per giungere alla parola (p. 150). Escluse dal campo intellettuale per secoli, grazie a un rivolgimento verso l’esterno di ciò che dentro preme, le dieci intellettuali hanno visto nel regno naturale l’ambito preferito di una tale esternazione. Verrebbe quasi di riprendere la celebre espressione di un’altra figura rilevantissima nel campo letterario, Virginia Woolf, che in un saggio fondamentale affermava per le donne la necessità di avere una stanza tutta per sé. Parafrasando ed estendendo una tale espressione al volume di Adinolfi e Scaraffia, si può dire che ad accomunare le dieci intellettuali sia la necessità intima di avere una natura tutta per sé, un giardino d’infanzia, un parco delle meraviglie, una coccinella rossa con due puntini neri sul dorso […] in un batuffolo di calda ovatta (pp. 42-43). È stata in parte anche la possibilità di approdare nel regno naturale a fare di queste donne delle scrittrici, delle poetesse, delle pensatrici capaci di una profondità inaudita e non replicabile. Attraverso una comprensione diretta ed immediata – scaturita dall’agire pratico, dal ricordo del passato, dalla conoscenza del mito – l’espressione della propria interiorità si è fatta tutt’uno con la consapevolezza di appartenere e con la volontà di interpretare la meraviglia e il mistero di ciò che ci circonda.
A rafforzare tali sentimenti è stata anche l’irruzione quotidiana della vicenda storica, dei fatti umani, gli avvenimenti che del Novecento hanno fatto un secolo tanto complesso. Pensiamo all’opposizione tanto forte quanto tangibile di un campo di lupini straordinariamente giallo (p. 144) e del filo spinato del campo di smistamento di Westerbrok in cui era rinchiusa Etty Hillesum, pensiamo allo spicchio di cielo che la finestra della prigione lascia intravedere a Rosa Luxemburg e insieme al suo rivolgimento – politico, personale – verso il fragile, il piccolo, il bisognoso e degno d’amore. Un moto di pietas verso ciò che è sofferente o offeso, verso ciò che è oltraggiato da logiche violente, arbitrarie o di privilegio accompagna anche le pagine dedicate a Mary Webb, che alla chiara percezione della connessione tra dominio della natura e oppressione delle donne a opera di un mondo patriarcale distruttivo (p. 16), oppone l’esperienza femminile del mondo, della natura, dell’esistenza. E ancora, Simone Weil che dopo la terribile e degradante esperienza del lavoro operaio che la vede impiegata nelle officine Alsthom e alla Renault si rivolge ad un diverso angolo di visuale esterno al mondo (p. 16) con cui comprendere il perfetto equilibrio che genera e anima la vita terrena.
Ad accompagnare le dense pagine del volume, i dipinti dei pittori veneziani Serena Nono e Nicola Golea permettono al lettore di soffermarsi ulteriormente sulle tematiche affrontate dai dieci saggi, offrendo al contempo la rappresentazione plastica del rapporto umano con la natura e insieme una natura lasciata a sé, mai toccata dall’essere umano. Come non ricordare alla vista di Notturno di Serena Nono, le altissime querce, le purpuree foglie turbinose della foresta d’infanzia narrata da Cristina Campo? Come restare indifferenti a Trasfusione di pensieri di Nicola Golea dopo aver letto il saggio di Elsa Morante e aver compreso l’affinità quasi spirituale della scrittrice e dei felini? Albero di Serena Nono – dipinto, questo, che regala una copertina al testo – rappresenta un albero sinuoso di cui non si vedono radici né ceppaie nel terreno, tanto da offrire l’immagine stessa dell’infinitezza e del rivolgimento alla natura come assoluto, come un cielo azzurro di cui non si conoscono i confini.
Il merito del volume di Adinolfi e Scaraffia è allora quello di saper condensare in un testo il coro femminile di voci uniche e originali che nel Novecento si è dedicato ad una conoscenza inedita del mondo naturale e delle sue intime connessioni: dovremmo considerarlo come un breviario al tempo stesso spirituale e confessionale, un testo da consultare giornalmente e da cui prendere ispirazione per la forza, la profondità e l’attualità dei suoi contenuti. Dovremmo rileggerlo spesso e almeno in ogni passeggiata nel bosco, ad ogni sorgente incontrata, seduti davanti ad una siepe di spiree o all’ombra di un cedro del Libano.
Caterina Zamboni Russia