Una nebbia lattiginosa avvolge la banchina di una silenziosa stazione ferroviaria, nebbia da cui emergono sfocate segnaletiche rosse, unica espressione di vitalità. È da questo quadro di copertina, “Princes Bridge Station” della pittrice Clarice Beckett, che entriamo nell’ultimo romanzo dell’autrice croata Ivana Sajko, Piccole morti. In punta di piedi, e non si potrebbe fare altrimenti dopo l’impatto con questa prima immagine che ammalia lo sguardo e aver letto il titolo drammatico dell’opera: entrambi emblematici, invitano a un silenzioso raccoglimento per far fluire le sensazioni che arriveranno dalla lettura del libro che è il monologo di un uomo durante un viaggio o, meglio, durante il viaggio:
“Comincio a scrivere in treno, in viaggio dal punto A al punto B, da una piccola località sul litorale a Berlino (..) scrivo nell’unico modo che conosco, girando nei meandri di ciò che mi fa più male e per cui non c’è aiuto”.
Nelle ore in cui lui sarà su un treno in movimento – ma il concetto di essere in movimento è uno stato mentale e fisico con cui si confronta e scontra da anni ma da cui esce perennemente sconfitto – lui su questo treno dialogherà con un taccuino, forgiando la carta con la sua vita intima in un flusso dirompente e inarrestabile, lucido come mai gli era accaduto in passato. Questo dilagare di parole e sentimenti che straripano e abbattono le sue corazze mentali è stilisticamente reso tangibile al lettore su pagine ininterrotte dalla punteggiatura, se non dalle virgole e da pochissimi punti utilizzati solo quando è necessario e imprescindibile modificare il ritmo emotivo del proprio vissuto. Alla stregua di una rappresentazione teatrale dove l’unico attore interprete di se stesso è al centro della scena e permette (finalmente!) alla sua vivida voce di raccontare chi è davvero stato negli anni, lui, l’uomo che ora sta fuggendo per ritrovare se stesso, dal punto A al punto B. Senza che tutto questo implichi far sgorgare dall’animo dei suoi ascoltatori un sentimento di compassione, anzi. Perché il viaggio gli serve fortemente per dialogare tra sé e certamente gli serve per poter tornare a scrivere ma non ha nessuna intenzione di dover rendere conto dei suoi gesti a chicchessia:
“(..) per raggiungere Monaco dove prenderò la coincidenza per Berlino, dove sono diretto rifiutandomi di dare a questa cosa un obiettivo, se non quello di andarmene finalmente, di riempire il mio taccuino, di scrivere senza ripensamenti come si scrivono le lettere agli amici fidati e di trovare la voce che sarà il riflesso nello specchio nel quale ora sono completamente solo”
Un uomo solo quindi, come per sua stessa ammissione, che da sempre è stato in difficoltà con qualunque relazione umana: essere in viaggio ora è l’unica azione salvifica che è riuscito a intraprendere dopo anni di immobilismo a tutti i livelli, sia professionale, perché è scrittore e giornalista ma non si è mai pienamente realizzato, sia emotivo, perché ha convissuto a lungo in un rapporto sentimentale stagnante.
La violenza è stato il tema dominante della sua infanzia in una famiglia disgregata con un padre alcolizzato e aggressivo e una madre che è emigrata in Germania, in quella Berlino a cui lui si sta ora avvicinando, per trovare lavoro e mantenere i figli, tanto che con il fratello hanno vissuto anni interi con la nonna materna. Violenza che ha assorbito nel profondo e che, seppur con riluttanza, utilizzerà quando si sentirà messo con le spalle al muro, perpetuando dinamiche familiari distruttive.
La gravità del titolo, Piccole morti, è un paradosso e al contempo un’iperbole: la morte in sé, per collettiva definizione, non potrà mai essere considerata piccola, un avvenimento insignificante, ma il volerne parlare al plurale esaspera il concetto e lo colloca nella minuta quotidianità di ciascuno, quasi a sottolineare che, benché le morti possano essere svariate per gli individui (non intendendo ovviamente solo quelle corporee), a esse si potrà addirittura sopravvivere. Sebbene il sopravviver loro non indichi necessariamente uscirne indenni o con la propria condizione personale migliorata. Al contrario, significa essere costantemente in bilico sull’abisso interiore e per non cadere e perdersi poi definitivamente, per non morire davvero di una morte piccola, ci si immobilizza sino a trattenere il respiro, sino a toccare una non vita che è già manifestazione del proprio privato fallimento.
Ma è nel momento in cui il protagonista sembra dilatare lo sguardo verso l’esterno quasi a voler far entrare aria fresca e pulita nel suo respiro per trovare refrigerio, trova di fronte a sé immagini catastrofiche dell’umanità, di un’Europa che politicamente ha abbandonato in modo consapevole i Balcani alla loro guerra senza intervenire con efficacia e con la propria autorevolezza, causando quindi la morte di molti migranti di ogni età. Il piano narrativo si è quindi repentinamente spostato e il protagonista si trova immerso in uno stato catatonico e allucinato, visivamente a contatto con la morte di uomini, donne e bambini ormai senza speranza e che forse non avranno possibilità di salvezza ma che stanno comunque cercando di fuggire dalla devastazione.
La morte, sempre la morte che lo rincorre e lo sovrasta.
Ivana Sajko con una scrittura pulita e incredibilmente seducente ha realizzato con Piccole morti uno spazio di dolore profondo ma ancor più un luogo di grande coraggio interiore, una voce vibrante che con acume e priva di sotterfugi si interroga a tutto tondo sugli anni trascorsi, lasciando affiorare senza ritrosia la propria debolezza e la propria inettitudine, scardinando quindi un’intera esistenza per ritrovarsi nudi.
Per partire senza bagaglio superfluo. Per rinascere.
Chiara Gilardi
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Ivana Sajko, Piccole morti, Voland, Traduzione di Elisa Copetti, pp 128, euro 16,00