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J. Albert Mann anteprima. Le degenerate

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Per comprendere cosa Le degenerate possa smuovere dentro la testa e il cuore dei lettori, bisogna sapere cosa si nasconde dietro la pseudoscienza conosciuta come “eugenetica”.

Opera della statunitense J. Albert Mann, da oggi in libreria grazie alla casa editrice Uovonero e con la robusta traduzione di Giuseppe Iacobaci, il romanzo infatti descrive in sintesi il dramma di cosa sia stato mettere in atto la teoria eugenetica negli Stati Uniti del XX secolo.

Pubblicato per la prima volta nel 2020, Le degenerate è sorprendentemente una opera indirizzata a un pubblico YA. Eppure la storia e lo svolgimento hanno al loro centro l’idea di “purezza” veicolata dall’eugenetica, il suo intento di migliorare la specie umana attraverso la riproduzione selettiva, eliminando cioè malattie e tratti sgradevoli o pericolosi. La realtà dei fatti che la Mann sottintende è che la società americana non ci mise molto a radunare «i soliti sospetti di sempre – i poveri, i disabili e gli emarginati (incluse le persone di colore, gli indigeni, gli immigrati e i membri della comunità LGBTQIA+) –» per rinchiuderli in appositi istituti da cui, una volta internati, non si poteva più uscire. E se a qualcuno scappa un parallelismo con le efferatezze della Germania nazista, dico che non è per nulla sbagliato. Aggiungo che gli istituti dove “ricoverare” elementi “non in sintonia” con la società sono rimasti attivi almeno fino agli anni Ottanta del Novecento.

Ambientato nella Boston del 1928, dentro gli spazi della Massachusetts School for the Feeble-Minded, il romanzo della Mann mette in scena, prima ancora che un atto di ribellione nei confronti di una visione del mondo razzista e senza possibilità di contraddittorio, qualcosa che potremmo definire come la rivincita verso di esso.

Innesco ed esplosivo sono dentro London, una ragazzina di quattordici anni approdata in America dall’Italia nel 1918 con i genitori. Una speranza di vita nuova che si dissolve nel giro di nulla: l’epidemia di influenza porta via madre e padre. Da lì in poi London trascorre «notti e notti rinchiusa in dormitori lerci di orfanotrofi o in case affidatarie più lerce ancora, in camerate piene zeppe di gente che non conosceva». Non basta a salvarla dall’Istituto il vivere nel monolocale di Thelma Dumas, una anziana donna ruvida e strampalata. Perché attorno le cose si muovono in fretta: London resta incinta, arrivano i poliziotti che se la portano via e viene sbattuta in istituto. Mann tratteggia la figura di London come fosse uscita dalla costola di un personaggio dickensiano. In realtà è buona parte del romanzo a richiamare elementi dell’autore inglese. Ma London ha qualcosa di diverso rispetto a Twist e soci. Lei è fornita di un carattere indomito, che illumina di una luce tutta sua il romanzo.

Ed è lei indubbiamente lei a portare avanti la storia, a trovare nelle pagine del Conte di Montecristo la possibilità di ribellarsi all’ineluttabile: l’idea della fuga dalle angherie e dal destino che medici e infermieri impongono sulle loro vite. È lei che «tenuta in vita da una forza simile a un mantice» muove, stimola il desidero di libertà e fa crescere la speranza di un mondo da vivere autonomamente nelle altre ragazze dentro la struttura. Ragazze con cui entra in relazione per vari motivi e tutte con problemi comportamentali o handicap fisici: Maxine, Alice, Rose. Per chi le controlla sono tutte delle “ritardate”. Nemmeno ribelli, solo “idiote”, pezzi inutili alla società: che ha deciso di vederle come tali, non come esseri umani.

Ma Le degenerate non narra unicamente “sotto mentite spoglie” l’incoercibile desiderio di libertà, il voler vivere la propria vita da parte delle protagoniste. Non è nemmeno una storia in cui si voglia, via metafora, ammonire sul come idee di eugenetica tornino a far capolino nelle nostre società. È anche e soprattutto un grande affresco interiore, che porta sul proscenio le protagoniste, mostrando come vivono e quanto reprimono di sé per paura delle conseguenze.

Mann racconta questo e molto altro usando una lingua schietta, a volte persino dura. Al suo interno appaiono parole oggi definibili come offensive e che risuonano lungo la partitura del racconto come vere rasoiate. Credo che nella scelta stilistica non vi sia unicamente il bisogno di una contiguità son la Storia, ma che il suo essere attivista per i diritti delle persone disabili negli Stati Uniti abbia permesso una maggiore frontalità nel dire le cose. E Le degenerate non nasconde mai dietro un velo di pietismo cosa realmente significhi perdere la propria libertà e ostinatamente rivolerla indietro. Ribellandosi quando risulta necessario farlo, per tornarne in possesso.

Sergio Rotino

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Rose osservò l’infermiera che disponeva gli strumenti sul tavolo di acciaio. Il legnetto schiaccialingua, la collana ascoltacuore, il nastro per misurare. In genere le piaceva collaborare con il controllo mensile – rispondere alle domande, aprire la bocca grande grande – ma quel giorno i suoi pensieri erano tutti rivolti alla ragazza dagli occhi scuri.

Non aveva detto a Maxine che l’aveva aiutata a scappare. Avrebbe voluto, e avrebbe voluto dirlo pure ad Alice, perché era fiera di sapere della finestra che si apriva, fiera del fatto che la ragazza fosse uscita con il suo aiuto. Adorava aiutare le persone. Ma si tenne stretta il suo segreto, convinta che, se se lo fosse lasciato sfuggire, insieme al segreto se ne sarebbe andato via pure quel brivido che sentiva dentro.

Sapere cose di cui la sorella non era a conoscenza – tipo rubare cibo, o aver aiutato quella ragazza a scappare – era una sensazione gradevole a volte.

Rose adorava Maxine e adorava essere la sua sorellina. Ma non riusciva a cancellare quella parola, “mongoloide”, che spesso andava a piazzarsi lì in mezzo alle altre. Si diceva così, a voce alta: «La sorella mongoloide di Maxine». E quando non lo si diceva, quando quella parola era taciuta, a volte Rose la sentiva più forte ancora.

Mongoloide.

La parola la faceva sentire in quello stesso modo in cui la facevano sentire i giri in cerchio nella pista. Una volta aveva provato a chiedere a Miss Barrett, una delle signore gentili che adesso lavoravano all’ufficio del soprintendente, perché le facessero girare così. Miss Barrett le aveva risposto: «Cara, il corpo delle persone deboli di mente manca di forza vitale. Il percorso si fa in cerchio per rimuovere il peso di decisioni o scelte».

Come tante cose che le venivano dette lì all’istituto, Rose non capiva ma si trovava vigorosamente in disaccordo.

Rose non aveva detto a Maxine o Alice che aveva aiutato la ragazza anche perché sapeva che si sarebbero infuriate. Aiutare era pericoloso. Aiutare significava tempo nelle gabbie.

Ma a Rose non importava. Aiutare era bello.

Alice aveva detto che quella ragazza era di quelle che non avrebbero mai smesso di tentare la fuga, perciò era intenzionata ad aiutarla ancora.

Rose non aveva mai provato a scappare da nessun posto. Neppure come aveva fatto Maxine quando abitavano nell’altra casa, quella con la mamma e il papà e i fratelli. Starsene in giro di notte al buio senza una coperta né un letto né la sua bacchetta: il solo pensiero le dava i brividi. Se l’immaginava un po’ come quella volta che le era presa una febbre altissima ed era rimasta imprigionata dentro a un brutto sogno lunghissimo in cui tutto quanto era sbagliato e non riusciva a trovare una via d’uscita. Quando s’era svegliata tutta gelida e sudata e non più nel mezzo del sogno, Rose aveva gridato di gioia all’idea di ritrovarsi nel mondo vero.

Alla ragazza dai lunghi capelli cespugliosi e dagli occhi neri invece piaceva, andarsene lì, tutta sola al buio. Lei non aveva paura. Guardarle aprire la finestra era stato come guardare qualcuno scartare una di quelle deliziose barrette Bit-O-Honey. Aveva visto com’era tutta esaltata all’idea di scavalcare la finestra altissima e sgusciar via nella notte piovosa, tanto da dimenticarsi di rivolgerle un ultimo sguardo. Era sparita, così, oltre il davanzale.

Rose adorava ripensare a quel momento. Il brivido di quel ricordo la spinse a parlare.

«Infermiera?»

Le mani fredde della donna stavano avvolgendole un metro a nastro sulla testa. Non facevano che misurarle la testa.

«Sì, cara».

«Vorrei aiutare più spesso nello spogliatoio».

«Uhmm».

Rose intuiva che l’infermiera non la stava ascoltando neanche, intenta com’era a scribacchiare numeri su una tabella. Le misurazioni di Rose avevano riempito decine di quei fogli. I numeri erano come le stelle che si svegliavano nel cielo notturno – neanche il tempo di vederne una, che già ce n’era una nuova tutta lucente.

«So come si piegano i vestiti. Sono brava a piegare. Ma lo sa, è con la pratica che si migliora» disse Rose, badando bene a ripetere le esatte parole che le erano state ripetute tante e tante volte.

«Ben detto, signorina» disse l’infermiera, guardandola per la prima volta da quando era entrata.

Rose colse subito il gancio. «Non può chiedere a Mrs.Vetter se posso lavorare allo spogliatoio per fare più pratica?» Aggiunse qualche altra parola adatta, di quelle che aveva imparato. «Mi sento all’altezza del compito».

L’infermiera si voltò e si mise a frugare fra i suoi strumenti. Prese il termometro, lo scosse vigorosamente e lo ficcò sotto l’ascella di Rose. Quando infine posò di nuovo gli occhi su di lei, aveva la testa inclinata e un sorrisetto triste sulle labbra. «Decisioni così non dipendono da me».

Aveva lasciato cadere così la cosa e si apprestava ad andare oltre, bruciando l’occasione buona di Rose. Inquieta, la ragazza premette il braccio nudo sul corpo, collaborando il più possibile per tenere il termometro a posto. Bisognava dire la cosa giusta adesso. Ma non sapeva bene quale fosse.

«Le persone però le danno retta quando parla» buttò lì, temendo di essersi già giocata la sua attenzione.

Quella si bloccò, la mano ancora sul suo braccio e, cosa più importante, gli occhi fissi su di lei.

Ce l’aveva fatta. Dopo il pranzo del giorno dopo, lei e Maxine vennero assegnate allo spogliatoio.

«Ma perché ci hanno messo qui anziché in lavanderia?» borbottò Maxine.

Non era davvero a Rose che chiedeva, era solo una lamentela, e infatti la sorellina non aprì bocca. Ovviamente lei sapeva la risposta, ed ecco un’altra cosa che lei sapeva e Maxine no. Questo segreto però non le dava lo stesso brivido al ventre di quell’altro. Questo somigliava più a una stilettata.

«Non c’è caldo come lì» disse Rose.

Aveva ragione. La lavanderia era il posto più afoso del mondo, soprattutto d’estate si sudava da matti. Ma non era estate. Si avvicinava anzi l’inverno e il piccolo stanzino era freddo, perché i riscaldamenti a gas non venivano accesi fino al giorno del Ringraziamento. Di lì a poco ci sarebbe stato davvero freddo.

L’inverno non era un buon periodo per scappare. Se voleva aiutare la ragazza, doveva sbrigarsi.

«A che pensi, Rose?» chiese Maxine, guardandola per la prima volta da quando Miss Sweeney le aveva accompagnate lì.

«All’inverno» le rispose lei, ed era la verità. Ma non era la verità intera, e Rose sentì un’altra stilettata.

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