Essere lontano, altrove, oltre quei vetri, quelle finestre; non prestarsi alla farsa che ogni anno si ripete a Natale: il ballo delle signorine Morkan, tanto care e ospitali- unico aspetto a salvare l’Irlanda dalla pungente accusa di inerzia spirituale con cui la dipinge Joyce, e che tanto lo indigna; lontano dalla sua terra, lui, in un esilio che si auto impone assieme a Nora: Zurigo, Trieste, Roma, Parigi.
“Doveva far proprio freddo là fuori! Sarebbe stato piacevole passeggiare solo, prima lungo il fiume e poi nel parco, con la neve posata sui rami degli alberi e come un berretto splendente sulla cima del monumento di Wellington. Quanto sarebbe stato più piacevole là che non al tavolo della cena!” Lontano da lì, Joyce, per meglio vedere, per meglio puntare gli occhi sofferenti, e il dito, contro la rigida, cattolica e provinciale società dublinese che nell’ultimo racconto di Gente di Dublino, I morti, ritradotto e uscito a dicembre per Passigli (a cura di Alessandro Gentili, 2018, pp. 115, euro 10), si condensa nel chiacchiericcio e nelle consuetudini, seppure bonarie, di un’etichetta che soffoca il protagonista, Gabriel, nipote prediletto di quelle signorine Morkan che aspettano il suo discorso di fine cena come l’apice di un’opera di incensazione della loro stasi tutta rivolta al culto del passato. Gabriel, “primo attore”, scrive Gentili nella postfazione, “officiante della liturgia dell’evento”.
Eppure non è questo a colpire, nel racconto, semmai l’epifania che investe Gabriel alla fine del ballo, quando ormai tutti si apprestano a tornare alle loro case, e che dapprima lo lascia estatico contemplatore della moglie, ferma sulle scale ad ascoltare un canto di cui più avanti si scoprirà la risonanza, poi lo infiamma e infine lo abbatte. È nel giro di poche pagine che il suo slancio vitale si esalta e si consuma sotto il peso della neve che ricopre tutta l’Irlanda e ricopre i camposanti dove riposa chi non fu mai dimenticato.
“Vi erano grazia e mistero nella posa di lei, quasi fosse un simbolo di qualcosa. […] Fosse stato un pittore l’avrebbe dipinta in quella posa. […] Musica lontana avrebbe chiamato quel dipinto, fosse stato un pittore”, mentre fuori “il mattino era ancora buio. Un lucore giallo smorto incombeva sulle case e sul fiume, e il cielo pareva stesse per discendere”.
Il desiderio di lei gli infiamma le vene come un caldo fiotto di gioia e giovinezza e lui freme sotto l’impulso di cingerle le spalle per ricordarle gli anni segreti e lontani del loro amore, ma poi trema di indignazione contro di lei- così distante- e contro di sé e la propria figura ridicola.
Infine, dopo la confessione di Gretta e dopo la vista vergognosa di se stesso allo specchio, la sua anima si avvicina “a quella regione dove dimorano le vaste schiere dei morti”, più vibranti di lui, anche se nel ricordo.
Con un ultimo moto di compassione Gabriel sorveglia il sonno di Gretta quasi volesse ancora proteggerla dalla disillusione che lo pervade. Sembra di ascoltare quella Musica da camera, il canzoniere d’amore che Joyce scrisse da giovane:
Dormi, dormi ora,
tu cuore inquieto!
Una voce che grida “Dormi ora”
Sento nel cuore
La voce dell’inverno
si sente alla porta.
Dormi, perché l’inverno
grida “Non dormire più!”
Il mio bacio donerà ora pace
e quiete al tuo cuore –
dormi in pace ora,
tu, cuore inquieto!
(J. Joyce, Musica da camera, a cura di Caterina Ricciardi, Giuliano Ladolfi editore, 2011, pp. 97, euro 12)
E, con la neve che riprende a cadere picchiettando sulla finestra, Gabriel si rende conto che è “arrivato per lui il momento di mettersi in viaggio verso occidente”.
“Quell’incantevole fenomeno naturale, nella sua lieve tranquilla divina bianchezza, trascende casi circostanze condizioni, ammanta e cancella ogni limite, ogni confine tra le forze opposte dell’esistenza umana, amore e morte, tra i vivi e i morti, ed effonde un sovrumano fatale silenzio”, scrive Alessandro Gentili nella bella e dettagliata postfazione dove rintraccia tutti i riferimenti autobiografici che Joyce dissemina nella narrazione.