Personaggi di un’oscurità sadica prossima all’assurdo: “Butterworth era una figura quasi mitica nell’ambiente del cinema. Assumeva prostitute e le costringeva a umiliarsi tra di loro con oggetti sessuali; le appendeva anche a dei ganci e le prendeva a pugni. Tornava a Los Angeles da New Orleans in preda alla rabbia e trattava male gli impiegati del suo ufficio perché doveva andare a letto con una prostituta orrenda. Lui e un co-produttore mettevano l’Lsd nel pranzo della cameriera ispanica del co-produttore e la filmavano mentre incespicava disorientata e spaventata nella casa; poi facevano vedere il filmato a tutto l’ufficio”.
È in libreria il ventiduesimo capitolo della saga di Dave Robicheaux il mitico personaggio di James Lee Burke che torna con New Iberia blues il suo nuovo libro tradotto da Gianluca Testani (Jimenez Editore 2023, pp. 488, € 22).
James Lee Burke è considerato tra i più importanti scrittori americani viventi ed è uno dei pochissimi autori ad avere vinto due volte l’Edgar Award, il premio al miglior mystery dell’anno. È autore di oltre 40 romanzi, circa la metà dei quali con protagonista il detective Dave Robicheaux.
In New Iberia Blues, l’anziano detective Dave Robicheaux visita Desmond Cormier, un regista di Hollywood originario della Louisiana. Dave riflette sulla sua età mentre sua figlia Alafair lo rimprovera per il suo atteggiamento protettivo. Nel frattempo, si trova a lottare con i suoi sentimenti per Bailey Ribbons.
Il cuore della trama coinvolge l’evasione di un assassino condannato, Hugo Tillinger, e l’omicidio di Lucinda Arceneaux, che segna l’inizio di una serie di omicidi. Robicheaux, affiancato dal giovane agente Sean McClain e dalla detective Bailey Ribbons, si trova ad affrontare una sequenza di delitti che sembrano ispirati dalle carte dei tarocchi. Questi eventi si intrecciano con la vita personale di Dave, dando vita a una complessa rete di collegamenti tra i personaggi.
Sebbene ci siano elementi familiari nei personaggi e nella trama, Burke si esprime con forte intensità emotiva e con espressioni che rendono la storia fresca e coinvolgente.
Ecco i pensieri profondi di Robicheaux sugli spiriti dei morti: “Non credo che il tempo sia sequenziale» dissi. «Credo che il mondo appartenga ai morti come ai non nati. Ho visto soldati confederati nella nebbia sul lago Spanish. Ho desiderato di unirmi a loro»”.
Robicheaux in un interrogatorio: “«Non penso che lei abbia afferrato”, dice a un sospettato. “«La Louisiana è la risposta americana al Guatemala. Il nostro sistema legale è una barzelletta. La nostra legislatura è un manicomio. Che ne dice di trascorrere qualche giorno nella prigione della nostra parrocchia?»”.
Nonostante il linguaggio forte la prosa di Burke è meravigliosa, adatta a descrivere l’ambiente di un club blues della Louisiana meridionale, le martiri cristiane del terzo secolo Felicita e Perpetua, o la crudeltà: “La crudeltà si presenta sotto ogni forma. È meno attraente quando la scopri in te stesso.”.
In definitiva, New Iberia Blues è un libro che non dovrebbe mancare nella libreria di chi apprezza una narrativa coinvolgente, caratterizzata da personaggi vivi, complessi e mai scontati e lo stile di scrittura eccezionale di un grande maestro di prosa.
Carlo Tortarolo
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La storia di successo di Desmond Cormier è di quelle improbabili, pure in mezzo alle numerose, autocompiaciute storie dalle-stalle-alle-stelle che ci raccontiamo nell’eterna saga della nostra verde repubblica, una saga che cambia continuamente eppure è sempre la stessa e comprende anche le tombe di Shiloh e le ceneri dei villaggi indigeni. Questa non vuole essere un’affermazione cinica. La storia di Desmond è un pezzo di Americana, ci fa credere che la ricchezza e un regno da favola sono alla portata di tutti, a patto di non risvegliare la nostra inclinazione a spezzare le ossa agli eroi su una ruota medievale e a riconsiderarli in seguito, quando ormai siamo al sicuro, nel sottovento della storia. Non solo Desmond era nato nella privazione, dentro la cabina di un camion in cui la madre aveva tagliato il cordone ombelicale e gli aveva detto addio per sempre; era stato cresciuto dai suoi poverissimi nonni nella riserva indiana dei Chitimacha nel retrobottega di un negozio di alimentari che era poco più di una baracca senza aria. Si trovava su una strada sterrata fra terreni agricoli privi di alberi dove l’ombra e una bibita fresca sotto la veranda del negozio erano considerati un lusso, prima che i gestori dei casinò arrivassero dal Jersey e, con l’aiuto dello stato della Louisiana, convincessero una gran quantità di persone che un vizio è una virtù.
Al pari dei suoi nonni, apparteneva a quel gruppo di indiani sanguemisti chiamati in modo poco gentile redbones. I suoi capelli erano color cannella, caratteristico più delle donne che degli uomini cajun. La sua pelle era liscia come l’argilla, quasi glabra, gli occhi di un azzurro slavato e troppo larghi, come quelli di una persona affetta da sindrome alcolica fetale. Era consapevole della sua composizione razziale, come lo erano tanti della sua gente, e sorrideva di rado, ma quando lo faceva era in grado di illuminare una stanza. Io avevo sempre la sensazione che Desmond cercasse di rimpicciolirsi dentro i vestiti, come se in lui convivessero la paura e una grande tristezza. Come Proteo che soffiava nel suo corno a spirale, Desmond creava e ricreava costantemente se stesso, forse senza mai sapere chi fosse.
Comunque. Anche da bambino, non era uno che accettava il mondo così com’era, non più di quanto accettasse la mano che gli era stata servita. A dodici anni sembrava destinato a rimanere magro e gracile, portatore di vermi intestinali e pidocchi. Una mattina, dietro il negozio dei nonni, a torso nudo sotto un sole bianco, il corpicino madido di sudore, legò un blocchetto di cemento a ogni estremità di un manico di scopa e lo sollevò. E continuò a sollevarlo. E a spremere una palla di gomma in silenzio sullo scuola bus mentre i ragazzi più grandi ridevano di lui e spesso lo prendevano a spintoni sul vialetto di ghiaia. Arrivato a quattordici anni, aveva il fisico e l’animosità latente di un uomo, e i ragazzi che lo avevano bullizzato cercavano di ingraziarselo con deboli sorrisi riparatori. Lui rispondeva con la benevola attenzione di chi osserva un estraneo fare le bolle di sapone, finché non chinavano la testa e smettevano di parlare, per non provocarlo.
Dopo le superiori, servì ai tavoli nel Quartiere Francese e fu allievo di un artista di strada a Jackson Square, e scoprì di essere più bravo del suo maestro. A volte lo vedevo di primo mattino, tutto scompigliato, con la vernice sulla camicia e nei capelli, che mangiava beignet da un sacchetto di carta e beveva café au lait da un bicchiere di polistirolo. Una mattina di gennaio particolarmente fredda e grigia lo scorsi nella nebbia piegato su una panchina di ferro vicino alla cattedrale di St. Louis, come una creatura non evoluta di un’epoca passata. Non indossava una giacca e aveva le maniche della camicia arrotolate, come per sfidare le intemperie.
Sembrava malinconico, la sua noncuranza una maschera per la sua solitudine, e andai a sedermi accanto a lui senza essere invitato. L’aria aveva l’odore del fiume, degli scarafaggi morti in un canale di scolo, di vino e di birra nei tombini, di terra umida e fiori notturni e licheni sulla pietra. Era più l’odore di una città caraibica che dell’America. Mi disse che sarebbe andato a Hollywood per diventare un regista.
«Non devi studiare per diventarlo?» dissi.
«L’ho già fatto» rispose.
«Dove?».
Si puntò un dito alla testa. «Qui dentro».
Sorrisi bonariamente ma non dissi nulla.
«Non mi credi, eh?» disse.
«Che ne so io?».
«Vai ancora a messa?» mi chiese.
«Certo».
«Significa che credi nelle cose che stanno dall’altra parte del mondo fisico. Lo stesso vale per la pittura. E vale per i film. Entri in un mondo magico di cui gli altri non sanno niente».
Mi alzai dalla panchina. Mi sentivo vecchio. Le ferite di guerra mi facevano male. La durezza della panchina mi si era stampata sulle natiche. Udii l’Angelus risuonare nella torre della cattedrale, forse per sottolineare la nostra mutevolezza e il nostro ultimo destino.
«Buona fortuna» gli dissi. «Spacca tutto in California».
Aveva uno sbaffo di zucchero a velo sulla guancia. Per un istante mi fece venire in mente un bambino che era riuscito a intrufolarsi in una pasticceria. Sorrideva, quando alzò lo sguardo su di me.
«Che c’è da ridere?» gli chiesi.
«Tutto ciò che si ottiene con la fortuna non vale la pena di essere posseduto, Dave. Pensavo che lo sapessi».
Venticinque anni dopo, Desmond tornò a casa che era un regista, con un Golden Globe e una nomination agli Oscar. Si stabilì, come residenza part-time, in una palafitta a Cypremort Point, con querce e palme in giardino e una magnifica vista sulla baia, dove sosteneva di vedere gli squali scivolare sull’acqua al tramonto e immergersi nelle onde con le pinne dorsali intagliate come lame di rasoio scheggiate. Il problema era che nessun altro li vedeva.
Tutti, tempo addietro, avevano deciso che Desmond non era di questo pianeta e viveva sull’orlo di un sogno da cui traeva sia la sua arte sia il suo apparente disprezzo per il successo e il denaro.